Splice, Rai 4, ore 0,07.“Splice” di Vincenzo Natali è un classico horror di spavento e disgusto (astenersi i non amanti del genere) che mette in scena una creatura metà umana e metà animale, frutto di un demenziale esperimento scientifico. Ma è un film interessante che riesce anche ad essere parecchio altro, ad esempio un’allarmante radiografia della vita di coppia oggi, delle relazioni tra i sessi, della paura-desiderio-ossessione della maternità. Con Adrien Brody e l’attrice-regista canadese Sarah Polley (il suo doc autobiografico Stories We Tell è stato un gran successo negli Stati Uniti).Ginger e Fred sono due mostriciattoli creati in laboratorio ricombinando geni di specie animali diverse. Li ha creati la coppia di scienziati Elsa (Sarah Polley) e Clive (Adrien Brody), marito e moglie così impegnati nella ricerca da dimenticarsi di avere una vita privata. Lo scopo è ottenere preziose proteine che potrebbero risolvere parecchie malattie genetiche umane, naturalmente per conto di una multinazionale farmaceutica capitanata dalla solita spietata donna-manager che bada solo al profitto e dal suo assistente-lacchè. Elsa, il motore della coppia, è ambiziossima, vuole portare i confini della ricerca sempre più in là e convince il riluttante compagno a tentare l’inaudito, una combinazione di geni umani e animali. Ne uscirà e nascerà una chimera, creatura tra la nostra specie e l’infraumano, di sesso femmminile, sorta di sirena con la parte superiore di donna e quella inferiore di animale (Feud e Jung, dove siete?). Ci saranno conseguenze immaginabili e inimmaginabili, secondo il copione ormai archetipico dello scienziato pazzo in preda alla hybris e della mostruosa creatura visto in tanto cinema fantastico-horror, dai vari Frankenstein all’Isola del dottor Moreau all’Isola degli uomini pesce.
Ma Splice non si accontenta di ripercorrere tracciati conosciuti, di replicare visioni e incubi déjà vu. Anche perché il suo regista non è uno qualunque. Vincenzo Natali, canadese, oggi quarantenne, è diventato meritatamente celebre nel 1997 con un film anomalo, il thriller concettuale Cube, interessante esperimento filmico debitore allo strutturalismo e soprattutto alla teoria dei giochi e al suo dilemma del prigioniero. Anche qui Natali usa il film di genere, stavolta l’horror, con abilità e ottimo mestiere. Il repertorio di paura c’è tutto, si trema, si sobbalza, ci si spaventa, si prova disgusto di fronte alle scene più raccapiccianti e rivoltanti. Decisamente buoni gli effetti speciali e ottima la performance della creatura Dren, che ha la faccia e a momenti la grazia di Delphine Chaneac. Eppure Natali usa tutti i codici del genere per detournarli, immettervi altro materiale, farne esplodere la forma chiusa e pilotare il tutto in altre direzioni. Ad esempio verso la riflessione bioetica. Quello che succede in Splice non è poi così inverosimile e impossibile e lontano dalla nostra realtà, se pensiamo a quello che si è visto negli ultimi anni in fatto di clonazione e manipolazioni geniche. I coniugi scienziati Clive e Elsa si pongono frequentemente dilemmi come: è giusto quello che stiamo facendo? conviene o no varcare certe soglie? la scienza deve sottostare a regole o godere di libertà assoluta? È però la parte meno convincente di Splice. Tutto questo torturarsi e farsi domande non trattiene i due, soprattutto Elsa, dal procedere con gli esperimenti più sciagurati. Sicché sorge il dubbio che la riflessione etica in Splice sia poco più di una foglia di fico (per gli autori, ma anche per gli spettatori) per legittimare e rendere accettabile lo spettacolo della mostruosità. Non diversamente dai baracconi ottocenteschi che, coll’alibi positivista dell’esibizione scientifica e del render conto di tutto ciò che la natura era in grado di produrre, mostravano gli elephant men, gli uomini a due teste, le donne barbute e i gemelli siamesi a un pubblico ansioso di degustare orrori e freaks (attenzione, sul teatro ottocentesco della diversità sta arrivando a Venezia il film di Kéchiche Vénus noire).
Quello che in Splice è invece davvero interessante e riuscito, e lo alza sopra il livello di decine di film apparentemente simili, è che attraverso la storia di Dren (così è stata battezzata la creatura) e dei due che l’hanno creata, si mette in scena nientemeno che lo stato delle relazioni uomo-donna in questi confusi anni zero. La donna pencolante tra ambizioni di carriera e famiglia, la maternità voluta violentemente e a ogni costo ma anche temuta e negata, la perdita non solo di potere ma soprattuto di senso dell’uomo all’interno della coppia. Elsa non vuole figli, tutta colpa della madre, spiega, una frikkettona che la costrinse a una vita alternativa in una desolata casa di campagna. Clive invece il figlio lo vorrebbe, ma come succede sempre più nelle coppie contemporanee, nulla può contro il caparbio rifiuto di lei. Non c’è bisogno di ricorrere alla psicanalisi per capire che Dren è finalmente la loro creatura, la figlia che non hanno mai avuto e voluto per via naturale, finalmente creata da entrambi in modo pulito e scientifico in laboratorio, arrivata senza scambi di fluidi corporei, senza contatto. Quando la creatura esplode dall’utero sintetico costruito in laboratorio, Elsa partecipa come se fosse lei stessa a partorire, e la regia insiste parecchio su questo parallelismo. Dunque le provette e le altre diaboliche tecnologie di Splice realizzano una maternità surrogata, sono una specia di enorme, artificiale utero in affitto che consente a Elsa e Clive di avere un figlio per procura, attraverso una delocalizzazione produttiva al di fuori di sè. L’allusione al fenomeno dilagante della fecondazione artificiale-assistita è più che evidente. Dren è figlia avuta senza bisogno di metterci il proprio corpo, senza il rischio di deturparsi con i nove mesi di gravidanza. Senza nemmeno dover ricorrere agli impicci del sesso.
L’evolversi delle relazioni tra Dren, Elsa e Clive segue esattamente il percorso di ogni coppia alle prese con un bambino che cresce, è si direbbe un quasi-normale romanzo familiare, con la differenza che Dren diventa grande molto più in fretta per via della sua velocissima replicazione cellulare. Quindi in breve tempo si susseguono l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta ed è come se assistessimo al diario di una famigli alle prese con un figlio, solo, diciamo così, un po’ anomalo. Dren è anche la materializzazione di un’altra ossessione della coppia contemporanea, l’incubo di avere un figlio non uguale agli altri (prima si diceva handicappato, adesso non si può più). Ossessione che sta portando al proliferare vertiginoso e incontrollabile degli esami prenatali, in una spirale che sfiora ormai il delirio eugenetico. Eppure in Splice, a dimostrazione della sua complessità e stratificazione, c’è anche l’opposto, l’accettazione della diversità. Dopo l’iniziale sbandamento, Elsa e Clive decidono di tenersi Dren e di non cancellarla dalla loro vita, le si affezionano, incominciano ad amarla teneramente. Dren da creatura aliena diventa sotto i nostri occhi un essere pieno di dignità e meritevole del nostro rispetto, che soffre e ama, e questo è uno degli obiettivi meglio centrati da Vincenzo Natali.
Non a caso il film degli ultimi tempi più simile a Splice non è un horror, ma una strana cronaca familiare, Ricky, l’ultimo Ozon pervenuto al momento in Italia (ma sta per arrivare a fine agosto Il rifugio). Ricky è un bambino all’inizio come gli altri ma che si rivelerà essere un mutante, una creatura dotata di ali e capace di volare, mezzo umano mezzo uccello, o forse angelo. Anche a Dren a un certo punto spuntano le ali, e viene da chiedersi se Natali prima di girare il suo film non abbia visto quello di Ozon.
Nella seconda parte però Splice prende un’altra piega. Fose Natali si è trovato nell’impossibilità di connettere le troppe trame e sottotrame che era andato accumulando o forse non se l’è sentita di esondare ulteriormente dalla regole ferree del cinema di genere. Sicchè l’ultima mezz’ora è puro e prevedibile horror, un susseguirsi di fatti veloce, concitato e abbastanza confuso – non tutti gli snodi e i passaggi sono chiari – fino alla grande, inevitabile scena di sangue e paura.
Splice è come Dren, commistione di più geni e generi cinematografichi, chimera e sirena, con una prima parte umana e, per così dire, da cinema alto e nobile, e la seconda completamente horror, da cinema basso e di genere. Ma Vincenzo Natali rialza di colpo il film con l’ultima, inquietante inquadratura. Che è pura citazione di Rosemary’s baby del maestro Polanski, la cui lezione è presente sottotraccia in tutto il film (come del resto in Splice si sentono anche le influenze del grande conterraneo di Natali, David Cronenberg, soprattutto quello di Inseparabili e La mosca). Ha ancora tempo di crescere, Natali, per arrivare a quei livelli, anche se questo suo film è già, pur con i suoi squilibri e le incertezze, un risultato degnissimo.
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