Film stasera sulla tv in chiaro: SHAME (giov. 6 nov. 2014)

Creato il 06 novembre 2014 da Luigilocatelli

Shame, La Effe, ore 0,45.
Shame di Steve McQueen. Con Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge, Nicole Beharie.
Ritratto glaciale e potente di Brandon, newyorkese di successo affetto da sex addiction. Un uomo come tanti, come tanti malato di frigidità morale ed emotiva. Il visual artist e regista Steve McQueen ha realizzato un film importante, allarmante. Shame ha consacrato MIcxhael Fassbender facendogli vincere al Venezia Film Festival 2011 la Coppa Volpi come migliore interprete maschile.

C’è il rischio che il già famoso nudo integral-frontale di Michael Fassbender eclissi il film, e il suo valore. Sarebbe un peccato. Shame è deflagrato al Venezia Film Festival del 2011 come un gran sopresa, forse il film più importante visto allora tra quelli in concorso per il Leone. Steve McQueen, un omone nato come artista visuale, sceglie di raccontare qui, come regista (e che regista, signori), un uomo assai poco immacolato, danneggiato, sporcato, degradato dalla sua dipendenza dal sesso, dalla compulsione erotica. “In Hunger (il suo film precedente, ndr)”, ha detto McQueen a Venezia, “ho raccontato di un uomo chiuso in prigione, stavolta racconto di un uomo che trasforma la sua assoluta libertà nella propria prigione”. Non è moralismo, è lucidità nel cogliere quella malattia emotiva della nostra contemporaneità che è il sesso impersonale, quella ginnastica genitale di corpi che si toccano e si compenetrano come in una tavola anatomica. Puro nichilismo. Brandon, il protagonista di Shame, cui Michael Fassbender aderisce con una fisicità impressionante, è un trentenne newyorkese di medio-alto successo che non ha, non riesce, non vuole avere relazioni durature e stabili. Che quando ci prova non ce la fa. Che ossessivamente fa sesso online, si masturba nel bagno di casa e dell’ufficio, si porta nel letto prostitute, fa avance pesanti alle ragazze che incontra in discoteca, si fa rimorchiare da sconosciute e se le scopa. Sesso, solo sesso. McQueen ce lo mostra con freddezza, non giudica, non ci racconta per fortuna molto di lui, non tenta nessuno approccio psicologistico al suo agire, semplicemente lo segue, lo pedina, registra i suoi movimenti. Il tutto in ambienti della nostra ipermodernità, spazi rarefatti, glaciali, geometrici, metallici e vitrei. Brandon è oggetto tra gli oggetti, viene osservato così come la macchina da presa osserva una sciarpa, un televisore, un divano. Da questo approccio avalutativo, fenomenico, scaturisce la forza enorme del film, che riesce a restituirci così il nichilismo in cui siamo sprofondati, e in cui ci stiamo perdendo, e che riesce a trasformare Brandon in un allarmante esemplare sociale dell’alienazione (sì, ritroviamola, questa meravigliosa parola perduta) ormai di massa. A fare da contrappeso è Sissy, la sorella di Brandon, invece travolta dalle sue emozioni, che cerca disperatamente di stabilire un ponte con quel fratello che sembra ormai perduto.
Nell’ultima parte tutto si accelera, la frenesia e l’eccesso prendono il posto della rarefazione, la compulsione porta Brandon a avventure multiple, a inoltrarsi nei cunicoli della metropoli, a fare sesso con uno sconosciuto in un locale gay, a esibirsi con una prostituta alla finestra-vetrina di un hotel. Succederà poi qualcosa, qualcosa di drammatico, che forse riuscirà a tagliare la corazza che avvolge Brandon e a raggiungere la sua carne, il suo cuore. Forse. La prima parte è di compattezza esemplare, un incubo translucido che ricorda il migliore e più implacabile Antonioni, quello de L’eclisse, o la disperazione vuota di certo Tsai Ming-Liang (Vive l’amour!). L’ultima mezz’ora, in cui lo schermo sembra incendiarsi infernalmente con le avventure accelerate e multiple di Brandon, ricorda invece le discese negli abissi di certo Bresson (Il diavolo, probabilmente) e quel capolavoro che è American Gigolo di Paul Schrader, non per niente discepolo devoto di Bresson. Un grande film, Shame, anche se sbilanciato tra prima e seconda parte. Ma sono difetti che non ne diminuiscono la statura. Attenzione alla scena in cui Carey Mulligan, sempre più brava nello scegliere i film giusti (vedi anche Drive di Refn), che poi è Sissy, la sorella di Brandon, canta una sua personalissima versione blues di New York, New York. Piange perfino l’algido Brandon, e anche tra il pubblico qualcuno ha pianto.


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