Somewhere, Iris, ore 23,13. Film vincitore del leone d’oro alla Mostra di Venezia 2010.
Somewhere di Sofia Coppola. Con Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Michelle Monaghan, Laura Ramsey, Robert Schwartzman, Caitlin Keats, Jo Champa, Laura Chiatti, Simona Ventura.
Somewhere è il miglior film di Sofia Coppola. Sembra che nulla succeda, invece il film costruisce impercettibilmente la sua storia fino alla scena clou. Il dubbio che la Coppola giri sempre lo stesso film però resta. Somewhere come Lost in translation: attori in crisi e fanciulle compassionevoli che si muovono in lussuosi alberghi come sospesi. Per questo non sarebbe male vederla la prossima volta alle prese con un’altra storia.
Stephen Dorff e Elle Fanning, padre e figlia in “Somewhere”
Johnny Marco (Dorff) e la figlia Cleo (Fanning) alla Notte dei Telegatti a Milano: una delle scene di “Somewhere”
Allo Château Marmont ti arrivano in camera due lap-dancer che fanno il numero e poi, se ne hai voglia, vengono anche a letto: sex on demand. Finita la prestazione smontano con gran professionalità la sbarra, se la infilano in borsa e se ne vanno. Allo Château Marmont in ascensore puoi incontrare Benicio del Toro e scambiarci due parole da pari a pari. Allo Château Marmont ti affacci al balcone e subito c’è una ragazza strepitosa in bikini che ti sorride.
Stephen Dorff è Johnny Marco
Almeno, questo è quanto capita allo Château Marmont, L.A., hotel dalla fama sinistra ma molto glamorous, a Johnny Marco, semistar di Hollywood che ci abita stabilmente. JM è un giovane attore non più tanto giovane di media fascia, però abbastanza famoso e abbastanza bello perché tutte le ragazze che bazzicano l’hotel vogliano andare a letto con lui, e lui non dice mai di no. Ma che posto è lo Château Marmont? Sta da qualche parte (somewhere) o da nessuna parte (nowhere)? Ha sostanza e radici o lo dobbiamo catalogare nella categoria inventata da Marc Augé dei non-luoghi? Domanda che rimane sospesa lungo tutto Somewhere, il film di Sofia Coppola che del fluttuare e della sospensione fa la sua cifra stilistica e materia di racconto. La cinepresa della regista non penetra mai nei personaggi e nemmeno nei luoghi, se ne mantiene sempre a distanza di sicurezza, li osserva senza toccarli, senza sporcarsi. Il suo cinema è puro sguardo, osservazione, non-partecipazione. Johnny Marco, uno Stephen Dorff perfetto nel ruolo ma dalla faccia troppo americanamente normale per poter aspirare a un riconoscimento importante (mi ricorda Dennis Quaid, bravo, ma nessuno l’ha mai preso sul serio per via di quei tratti somatici da giocatore di football americano), Johnny Marco, dicevo, viene sorvegliato discretamente ma implacabilemente dalla mdp della Coppola, che lo segue nella sua catatonia tra sbronze, sostanze alteranti che non si vedono ma si presume ci siano, amori seriali e anonimi (Johnny confonde i nomi delle regazze o se li dimentica), party di varia umanità e fauna losangelina con musicisti, p.r., modelle, aspiranti attori-attrici. Il mondo delle celebrità, di cui Johnny non è esponente di primissima fila ma di cui fa comunque parte a pieno titolo. Johnny ha pessimi risvegli, la sua vita è un pessimo risveglio, lui è il re degli hangover.
Elle Fanning è Clio
In questa esistenza sottovuoto e alla deriva si installa un giorno la figlia undicenne Cleo, ché la mamma (divorziata da Johnny o forse mai sposata) se ne deve andare via non si sa bene dove e perché, né per quanto tempo e con chi. Così JM si ritrova a fare il genitore a tempo pieno dell’incantevole e assennata Cleo, una Elle Fanning perfino protettiva (gli fa anche da mangiare) verso quel padre così sballato e sbandato. Fanno qualche giro insieme in Ferrari, se ne stanno in piscina, si sfidano a ping pong. Se ne vanno anche a Milano dove Johnny deve ritirare un Telegatto, pretesto che consente a Sofia Coppola di collocare il suo uomo in un altro albergo, stavolta il Principe e Savoia, in una suite che tutti vorremmo provare un giorno con tanto di piscina interna e coppe di gelato impeccabilmente servite in piena notte.
Giorgia Surina intervista Johnny Marco: una scena della parte milanese di “Somewhere”
La sequenza dei Telegatti di Somewhere, che dalle anticipazioni preveneziane ci aspettavamo fosse una demolizione impietosa della brutta tv italiana, è invece glaciale, asettica e non giudicante come tutto il resto del film. Sofia mostra, espone, forse addita al pubblico ludibrio il kitsch ma anche qui non si avvicina e non si sporca le mani. Semplicemente, lascia parlare le immagini, girate con la meticolosità e la fedeltà di chi quei momenti li ha vissuti davvero (Sofia da bambina accompagnò papà Francis proprio a una notte dei Telegatti). Mette in scena Nino Frassica, Simona Ventura e Valeria Marini con lo stesso distacco con cui potrebbe riprendere in un documentario etnografico un oscuro rito tribale del Centroafrica. Leni Riefenstahl in visita dai Nuba. Pensare che a proposito di questa escursione milanese del suo Johnny Marco, Sofia Coppola aveva detto nelle interviste di aver preso a modello Toby Dammit, l’episodio felliniano di Tre passi nel delirio su un attore americano in decadenza che viene a Roma a ricevere un premio e a girare il film in un clima da incubo e disfacimento. Ma nella parte italiana di Somewhere non c’è nulla di tutto questo, anche perché il cinema di Sofia è quanto di più lontano ci possa essere dall’espressionismo di Fellini e dalle sue distorsioni grottesche.
Sofia Coppola sul set
Che film è Somewhere? È davvero la copia conforme di Lost in translation, un pigro autocopia-incolla come qualcuno ha fatto capire? Le analogie tra i due film in effetti sono notevoli, anche qui c’è un attore in crisi, anche qui una vita sospesa negli alberghi, anche qui un uomo in crisi e una ragazza che fa da detonatore e forse occasione di cambiamento. Solo che stavolta Sofia Coppola fa parecchi passi in là. Scarnifica ulteriormente il suo modo di girare, lo rende ancora più disadorno, riduce al minimo i fatti, fin quasi a destrutturare ogni narrazione. Nello stesso tempo toglie, taglia, fino a far stare il film in 100 minuti circa, molto meno rispetto a Lost in translation. Sembra che in Somewhere non succeda niente, ma è una falsa percezione. In realtà SC allinea gesti, dettagli, piccoli atti e, assemblandoli come mattoni del Lego, man mano costruisce la sua storia e prepara la scena-svolta, quel sommesso pianto di Cleo che provocherà un big bang dentro Jimmy. E dopo il quale lui (e il film) non sarà più lo stesso. Somewhere, che ci pare per tanto tempo così orizzontale, piatto, circolare come i giri ossessivi della Ferrari di Johnny nella scena iniziale, eternamente ritornante su stesso, in realtà si muove in una direzione, è un processo. Ha uno sviluppo narrativo e ce ne rendiamo conto proprio da quelle lacrime improvvise di Cleo, che deflagrano nell’universo freddo e depotenziato messo in scena fino a quel momento dalla Coppola come un uragano emotivo. Quel pianto scuote non solo Johnny ma anche noi, e ci fa capire che il film è stato costruito perché si arrivasse lì, a quella scena. Ci rendiamo anche conto in quel momento che la regista ci ha depistato con quel suo stile distaccato. Che la sua non era distanza da Johnny e da Clio, ma pudore, rispetto, sobrietà emotiva nei loro confronti. Che dietro allo guardo impassibile si celava la partecipazione.
Elle Fanning, Stephen Dorff e, dietro, Jo Champa in una scena all’Hotel Principe e Savoia di MIlano
È la grande sorpresa del film, lo scatto che lo fa avanzare e lo innalza. Per questo non sono d’accordo con quanto scrive un critico che stimo molto, Todd McCarthy, che nel suo blog Deep Focus su IndieWire Network scrive, a proposito di Somewhere, che non si capisce se “the film is about vacuity or is simply vacuous itself”, se è un film sulla vacuità o è esso stesso vacuo. Propendo per la prima. Certo Sofia Coppola sottrae, mostra e non spiega mai, il suo cinema assomiglia pochissimo a quello muscolare e potente di papà, gonfio di cose e di caratteri, semmai discende da Antonioni ed è parente di Wor kar-wai e del miglior Wenders, quello dello Stato delle cose. Di Antonioni c’è parecchio, il girovagare di Johnny e Cleo tra non-fatti, non-eventi, non-persone, tra gente che si sfiora senza mai toccarsi, senza un contatto che sappia di verità, ricorda i vagabondaggi di Jeanne Moreau e Mastroianni nella Notte.
Somewhere credo sia il miglior film di Sofia Coppola, austero eppure sincero e partecipato. Quello che rappresenta al meglio le sue ossessioni, il più risolto e compatto sul piano narrativo e stilistico. E piace anche, di Sofia, che in questo film non riporti nulla di quello che è invece il suo personaggio nella vita, la Sofia Coppola fashionista, icona di stile inserita nel mondo dei grandi marchi di moda e dei giornali glossy. Di glamour in Somewhere c’è ben poco. Il mondo delle celebrities, che Sofia conosce molto bene da sempre, è spogliato di ogni fascino, restituito alla sua vacua routine, non c’è magia nei personaggi e neppure negli ambienti di questa Hollywood fredda come un marmo funerario. La Sofia Coppola fashionista da autrice di cinema non indulge ad alcun formalismo patinato, lo stile è spoglio, qua e là perfino sporco, meno levigato che in Lost in translation. Una scelta di un certo coraggio, bisogna riconoscere. Resta un dubbio. Che Sofia Coppola sia capace di girare sempre e solo lo stesso film, anche se migliorando di volta in volta le proprie perfomance, qualche centimetro più in là come i campioni di salto in lungo, qualche centesimo di secondo in meno, come i centometristi. Ma sarebbe ora, ci piacerebbe che finalmente cambiasse gara e campionato. Che si sperimentasse in un film nuovo, diverso, senza attori in crisi, fanciulle sagge e compassionevoli, senza lussuosi alberghi in metropoli notturne dalle mille luci colorate. Per capire se davvero è una grande o solo una brava, bravissima regista.
IL TRAILER
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