Tomboy, La Effe (canale 50 dt), ore 22,05.
Mica facile raccontare di una bambina che si sente un bambino, e gioca e si veste come un maschio, e vuol essere un maschio, e che agli amici giù in cortile racconta di essere un bambino di nome Michael. La regista francese Céline Sciamma affronta in questo Tomboy i problemi dell’identità di genere in età infantile. Tema perturbante e disturbante. Sciamma sceglie di raffreddare una materia così incandescente adottando uno stile distaccato e fattuale, riducendo al minimo ogni fremito drammatico e melodrammatico. Ma così facendo spegne anche il film.
Tomboy di Céline Sciamma. Con Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy.
Qualcuno avrà visto – l’ha dato in tv anche Real Time – Becoming Chaz, il docufilm che ci racconta il passaggio di genere, da donna a uomo, della figlia di Cher, già Chastity e ora Chaz. La parte avvero perturbante di Becoming Chaz è l’ultima, quando Chaz, militante dei diritti LGBT, fa visita a una scuola dedicata a bambini con disturbi dell’identità di genere, bambini che si sentono e si comportano da bambine, e viceversa. E fin qui. Chaz incontra però anche gli insegnanti, e soprattutto i genitori, i quali dichiarano di voler assecondare ciò che i loro figli sentono e vogliono essere, e che tra non molto, quando i loro pargoli e pargole entreranno in età prepuberale, li sottoporanno a terapie a base di inibitori sessuali. Vale a dire, farmaci che bloccano lo sviluppo sessuale, in modo da rendere precoce e più facile il passaggio all’altro genere. Il che, a dirla tutta, mi ha lasciato basito, per non dire peggio. Com’è che ci si sente così tranquilli nella ultrapoliticamente corretta California (è lì che si muove il nostro Chaz) decidendo di propinare a bambini sui dieci-dodici anni terapie di quel tipo? Non ditemi per favore che sono insensibile ai diritti dei transgender, qui si tratta di bambini, punto e basta, e come minimo mi sembra il caso di aspettare che su faccende così pesanti siano loro a decidere una volta grandi e consapevoli.
Ecco, vedendo Tomboy, che pure è un film fictional ed è ambientato in una Francia che nulla ha a che spartire con quella California del figlio/figlia di Cher, mi sono tornati alla mente quei bambini dall’incerta identità sessuale, e quelle terapie. Il film, che ho visto solo adesso con parecchio ritardo rispetto alla sua uscita, ci mostra una qualsiasi famiglia della classe media in un villaggetto residenziale in una qualche parte della Francia con il babbo, la mamma incinta e le due figlie, la più grandicella Laure, sui dieci anni, e Jeanne, in procinto di andare in prima elementare. Si sono appena trasferiti lì, le relazioni di vicinato sono ancora tutte da stabilire, insomma si trovano in una dimensione socialmente sospesa, di passaggio, fluida, ancora in via di definizione. Laure, la figlia maggiore, che si veste come un maschio e si comporta e gioca come un maschio e forse vorrebbe esserlo, ne approfitta per ricrearsi un’identità maschile fittizia ma forse più vera della sua (presunta) vera identità femminile ufficiale. Quando conosce quello che i sociologi chiamano il gruppo dei pari, i coetanei del cortile e del campetto giochi sottocasa, lei si presenta come ragazzo inventandosi anche un nome ad hoc, Michael. Del gruppo fa parte una ragazzina, Lisa, con cui Laure/Michael stabilirà un’amicizia speciale che sconfinerà in qualche casto bacio. In casa i genitori non si accorgono di niente (ed è uno dei limiti di sceneggiatura di Tomboy: non è assolutamente credibile che due genitori svegli e con uso di mondo come quelli di Laure non si rendano conto dei suoi slittamenti di genere). La più sagace, quella che mangia la foglia, è la sorellina Jeanne, iperfemminile già a sei anni, tutto un civettare e cinguettare e un mettersi addosso tutù rosa. Lei sgama abbastanza presto la commedia messa in piedi da Laure, ma decide di assecondarlo/a e di stare dalla parte sua, e di non dire niente a papà e mamma. Con i ragazzi del cortile procede tutto senza scosse, nessuno sospetta che Michael sia una bambina, del resto lui/lei se la cava bene nella lotta e con il pallone e si guadagna la stima del gruppo, e gli sguardi ammirati di Lisa. Qualche problema c’è quando gli altri si mettono a fare pipì, e Laure/Michael è costretta/o a scapparsene via nel bosco. Quando poi il gruppo decide di farsi un bel bagno collettivo, Laure – che non può sottrarsi e teme di essere scoperta – a casa prende il suo costume rosso da bambina e a colpi di forbici ne ricava uno slippino da maschio, e per rendere ancora più convincente la recita si confeziona con la plastilina un piccolo pene che verrà sistemato strategicamente onde ingannare i compagni di giochi e depistarli qualora si facessero venire qualche dubbio. Laure è abile nella sua messinscena, ma a un certo punto viene inevitabilmente smascherata, sicchè tutti sapranno che lei è una femmina, non il maschio che ha mostrato di essere. Finale aperto, in cui la regista Céline Sciamma si astiene da ogni giudizio, e perfino da ogni scelta narrativa (il che è peggio).
Tomboy non è nuovo, qualcosa del genere lo si era visto nell’argentino XXY di Lucia Puenzo, che però pasticciava parecchio con interpretazioni genetiche della sua ragazzina-che-si-sente-maschio. La regista Sciamma opta invece per lo stile dimesso, fattuale, cronachistico, de-drammatizzato. Tratta la sdrucciolevole materia con “pudore e delicatezza”, hanno scritto i soliti critici. Insomma, niente scandalismi, per carità. Bando al disturbante e al perturbante. Niente drammi e melodrammi alla Fassbinder in versione infanzia, nemmene alla fine, quando Laure viene smascherata e rischia l’ostracismo sociale. Il film, come anestetizzato, sembra scorrere in una bolla, in un mondo a parte, i turbamenti, che pure ci sono, di Laure/Michael non assurgono mai all’incandescenza, tutto è raffreddato, volutamente mantenuto sottotono. Fino alla rottura, allo scarto – inevitabile – di quando la madre apprende che la figlia si è finta maschio con i ragazzi del vicinato, e allora interviene con durezza, e sembra che finalmente si arrivi a un climax, a una pienezza, finalmente a una narrazione. Invece anche questa fiammata di spegne subito, drammaturgicamente produce poco, e il film subito dopo ripiomba nella sua freddezza, nella sua anoressia espositiva. Ora, capisco che a trattare un argomento del genere c’è da aver paura. Ma l’impressione è che Céline Sciamma butti il sasso e nasconda la mano, che per eccesso di cautela finisca con il dire poco o quasi nulla. Depotenzia ogni elemento davvero disturbante, ma che anche narrativamente potrebbe costruire una storia interessante, ad esempio la reazione negativa, scomposta, allarmata dei genitori, ad esempio la crudeltà infantile (che sappiamo esistere) del gruppo. Qui invece gli amichetti sono tuttosommato innocui, anche nella parte finale dove un po’ di cattiveria, ma siamo al minimo sindacale di quello che una sceneggiatura dev’essere, la tirano fuori. Tomboy è così delicato da diventare evanescente, reticente, da non prendere mai una pur minima posizione, nemmeno alla fine, quando sarebbe necessario dare un senso e una conclusione, e non lasciare i protagonisti (e con loro lo spettatore) vagare nel vuoto siderale. La trentenne Sciamma, che sembra ispirarsi (anche lei, come decine di altri registi giovani e quasi giovani) al cinema dei Dardenne, da quei maestri prende solo l’approccio descrittivo, fenomenologico, fattuale al mondo turbato dell’infanzia, e come i Dardenne fa largo uso della camera a mano (o in spalla) per gonfiare il senso di realtà, ma da loro non ha preso lo sguardo lucido e implacabile. Tomboy è un film troppo cauteloso e prudente, una prudenza che ci viene spacciata per rispetto e delicatezza, e che finisce invece col rendere evanescente la materia che racconta. Con il risultato di un film poco interessante e poco coinvolgente. Di Tomboy alla fine ci resta davvero la performance della sua protagonista Zoé Héran, che sa costruire, con i suoi occhi soprattutto, una Laure/Michael che non si dimentica.