La grande abbuffata, Iris, ore 1,25.
Il film di maggior successo commerciale, e anche quello a maggiore impatto sulle menti e la memoria degli spettatori, di Marco Ferreri. Correva l’anno 1973, e oggi un film così, come gran parte del cinema del suo autore, non sarebbe non dico realizzabile, ma neppure pensabile. Chi poi lo andrebbe a vedere? Ma ve lo immaginate il pubblico popcorn affamato di happy end di fronte a La grande abbuffata? Eppure allora, nei famigerati e per alcuni (non per me) magnifici anni Settanta, la gente fece la fila, ci rendiamo conto? Dico, un film assolutamente nichilista, perfetto prodotto e parto del suo regista, uno spirito anarcoide-sulfureo con derive surrealiste-iberiche-buñueliane (e anche alla Salvador Dalí se vogliamo). Così poco italiano, Marco Ferreri, che il suo cinema risulta a tutt’oggi dalle nostre parti di difficile collocazione e classificazione, ammesso che abbia un senso classificarlo (se ce l’ha, è per il nostro bisogno insopprimibile di definire e dare un nome al magma del mondo). Pensate un po’. In questo film quattro amici stanchi della vita decidono di chiudersi in una casa di Parigi e di lasciarsi morire non di fame, ma del suo opposto, il cibo. Non vengono scandagliati i motivi della loro insana decisione. Perché questo non è grazie a Dio un film psicologistico e Ferreri, come già nel suo precedente capolavoro Dillinger è morto, si limita a mostrare con occhio implacabile da entomologo-zoologo senza addentrarsi in inutili spieghe, risparmiandoci prediche o, peggio, quelle giustificazioni sociopolitiche che tanto andavano in quegli anni. I nostri divorano, ingozzano, ingurgitano di ogni, fino letteralmente a gonfiarsi di gas e scoppiare. Il corpo volontariamente e voluttuosamente degradato e insozzato, ridotto a sistema digestivo, al suo lungo tubo che va dalla bocca all’ano, dal punto di ingestione a quello di espulsione. Vomito e merda. Cortocircuiti tra alto e basso corporei. I piatti, preparati da una donna che è assistente, governante, vivandiera e insieme madre che nutre e madre che uccide, si trasformano in armi letali. La grande abbuffatta è claustrofobico, comunica il tanfo, gli odori del chiuso e del degrado progressivo dei quattro corpi in progressivo disfacimento. Una cerimonia di morte sporca fino alla sozzeria e ovviamente lugubre che non può non ricordare il più tetro e insostenibile Sade, quello delle 120 giornate di Sodoma (libro non per niente portato in cinema l’anno dopo questo film da Pasolini, e la coincidenza vorrà pur dire qualcosa). Scene turpi, come quando uno dei quattro, Michel, gonfiato e dilaniato dai gas, prorompe in scoregge devastanti, o il wc che esplode lordando di merda le pareti (scena ripresa e citata da Pappi Corsicato nel suo nuovo e abbastanza tremendo Il volto di un’altra, in arrivo nei cinema). Ecco, un film così ha come interpreti mica degli sconosciuti, ma attori massimi, famosi, famosissimi, che non esitano a giocarsi in La grande bouffe la carriera e l’immagine. Pensate: Ugo Tognazzi (forse il migliore, quello che si mette in gioco più di tutti esponendo anche qualcosa di se stesso, della propria notoria e smodata passione per il cibo), Marcello Mastroianni, Philippe Noiret, Michel Piccoli. La donna che nutre e uccide è Andréa Ferréol, in una parte che le avrebbe segnato la carriera. Oggi io non so se ce la farei a sostenerlo, a rivederlo, La grande abbuffata, non so voi.
Magazine Cinema
Film stasera (tardi) sulle tv gratuite: LA GRANDE ABBUFFATA (lunedì 14 ottobre 2013)
Creato il 14 ottobre 2013 da LuigilocatelliPotrebbero interessarti anche :
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