Botelho parte e chiude bene rappresentando l’incontro tra Soares e Pessoa che ovviamente non è mai avvenuto, e che altrettanto ovviamente è avvenuto nella mente del lusitano, e il finale sottolinea questo lasciando l’ortonimo senza compagnia (non c’era mai stata, forse) se non quella di una risma inchiostrata. I dolori visivi si accusano però nella trasposizione del libro, e qui il fatto curioso è che Botelho non tradisce la scrittura originale, certo ci sono inserti personali (la sequenza operistica) ma essi non sbilanciano la figurazione diegetica, e in alcuni passaggi la sceneggiatura diventa copia carbone dell’autobiografia senza fatti firmata dall’impiegato Bernardo Soares (“mi fa male la testa perché mi fa male la testa. Mi fa male l’universo perché mi fa male la testa”). Questo andamento pedissequo film-testo che il regista imprime danneggia il primo perché a prescindere dall’aderenza calligrafica ciò che Filme do Desassossego importa sgraziatamente dal manoscritto di partenza è la sua tremenda sconnessione, l’idea che dietro a tutto non ci sia un disegno ordinato bensì uno scarabocchio nevrotico, uno zigzagare tra i pensieri di Soares completamente spalancato, di un libertà viziosa e capricciosa che divelge ogni lettura oltre l’unica possibile: un soliloquio tanto incessante quanto segmentato.
A questo punto può sorgere una domanda: perché nel pesare il film si addita quel flusso filosofeggiante che in soldoni è la medesima spina dorsale del libro? La risposta esula dal lavoro di Botelho e si stanzia in una diatriba che qui non è il caso di approfondire; lo scarto che probabilmente è decisivo riguarda il rapporto tra i due media ed il lettore/spettatore. Se nel caso del Livrole riflessioni di Pessoa riescono ad impressionare ciò si deve alla forma diaristica, alla capillarità e alla ricchezza descrittiva, alla materialità delle pagine, aspetti che nel Filme giocoforza non possono entrare, sicché l’affidamento del tutto alla messa in scena non riesce a conservare la tensione magnetica delle parole scritte.