di Michele Marsonet. Come ho accennato nei due precedenti articoli, oggi occuparsi di problemi metafisici senza tener conto di quanto gli scienziati fanno appare arduo: la figura del metafisico che si propone di svelare la struttura della realtà ricorrendo soltanto alla ragion pura è superata. Naturalmente ciò non significa affermare che scienza e metafisica sono la stessa cosa. Più semplicemente significa riconoscere che, una volta appurato il fallimento del programma di eliminazione della metafisica, esiste un ambito d’indagine legittimo che non è identificabile in toto con quello scientifico, ma nemmeno è separabile da esso completamente a causa dei rapporti di “feed-back”. Si può allora notare che il neopositivismo logico impostò il rapporto tra scienza e metafisica sostenendo che, nella coppia formata da questi due termini, esiste un elemento forte o molto forte (la scienza) e uno debole o molto debole (la metafisica). La metafisica fu dunque ridotta a discorso privo di senso ed eliminabile. Dalla visione neopositivista si ricava l’esistenza di una Scienza (con la S maiuscola) che in pratica incarna l’intera razionalità umana, e soltanto in seguito l’epistemologia ha cominciato a chiedersi se sia davvero legittimo parlare di qualcosa di questo tipo.
Ai nostri fini, è interessante rilevare che sono gli stessi scienziati ad affermare che tale visione ha ormai fatto il suo tempo. La dimensione dell’osservabilità e dell’esperibilità diretta non viene più giudicata come tratto che sia in grado di tracciare confini netti tra scienza e metafisica. Capita così, ai nostri giorni, di leggere libri scritti da scienziati in cui la nozione di “materia” viene considerata nulla più che un mito. Affermano a tale proposito i fisici Paul Davies e John Gribbin che è significativo che la fisica – vale a dire la scienza-madre del materialismo – ne determini oggi la fine, in quanto la fisica del nostro secolo ha fatto saltare proprio i presupposti centrali di questa dottrina.
I continui mutamenti della visione scientifica del mondo dovrebbero inoltre indurci a riflettere sul carattere eminentemente storico dell’impresa scientifica. Occorre in primo luogo rendersi conto che la scienza, come del resto la stessa metafisica, è sempre il risultato dell’incontro tra il mondo da un lato, e le concezioni e gli interessi degli esseri umani dall’altro. E’ la scienza stessa a farci capire che essa ci permette di conoscere il mondo da un certo punto di vista, il quale a sua volta è determinato dal modo in cui siamo fatti e dal particolare tipo di relazioni che intratteniamo con l’ambiente in cui siamo inseriti. Risultano pertanto più che mai attuali le seguenti parole di Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica: “La scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura; descrive la natura in rapporto ai sistemi usati da noi per interrogarla. E’ qualcosa, questo, cui Descartes poteva non aver pensato, ma che rende impossibile una netta separazione fra il mondo e l’Io”.
Da quanto ho detto finora si desume che il nodo dei rapporti tra scienza e metafisica è molto complesso, e non si presta a strategie eliminative o riduzioniste come quelle elaborate da alcune correnti filosofiche del secolo scorso. Ad esempio, ai nostri giorni è in aumento il numero degli scienziati che attribuiscono alla natura caratteri di creatività, ragion per cui due dei quesiti che si pongono con maggiore frequenza sono: “Come possono i semplici processi fisici spiegare la continua creatività della natura?”, e “Esistono dei principi organizzativi di ordine superiore che danno forma a materia ed energia spingendole verso stati più elevati di ordine e di complessità?”. Solo di recente gli scienziati hanno cominciato a comprendere come complessità e organizzazione possono emergere dall’informe e dal caos, e a ipotizzare la presenza di principi e processi di auto-organizzazione in ogni ramo della scienza.
A un osservatore attento non sfuggirà che le questioni cui ho appena accennato si collocano in un alveo tipicamente metafisico, riguardando proprio la natura della realtà in quanto tale. Esse nascono dalla ricerca scientifica pura, e rappresentano le conseguenze metafisiche che gli stessi scienziati cercano di trarre riflettendo sui risultati ottenuti. Chiedersi se la varietà delle forme e delle strutture naturali sia il risultato del caso oppure l’esito di un’attività creativa spinge a porre un ulteriore quesito: fino a che punto siamo autorizzati a supporre che lo stato attuale dell’universo sia in qualche senso frutto di predestinazione? Si tratta di domande che lo scienziato si pone, ma che riguardano certamente anche il filosofo: il problema del determinismo è da sempre una delle questioni centrali della metafisica.
Anche l’immagine dello scienziato che fa ricerca senza avere in mente ipotesi metafisiche è, dunque, un mito. La distinzione tra scienza e metafisica è di difficile esplicitazione perché presuppone che ci sia una sola scienza e una sola metafisica, il che non è. Occorre relativizzare tale distinzione a un particolare periodo storico, prendendo in considerazione i punti di vista di positivismo, neopositivismo, filosofia analitica, ermeneutica, etc. Sono sempre la scienza e la metafisica di una certa epoca a confrontarsi, e occorre comprendere che in futuro la situazione probabilmente muterà. Non esiste una “immagine scientifica del mondo” atemporale, ma tante immagini inserite nel flusso del tempo. Ne consegue che il contrasto scienza/metafisica, con tutti i suoi problemi di demarcazione, va visto come un episodio della storia del pensiero e, in quanto tale, deve essere storicizzato. Mentre è possibile avere una visione del mondo ignorando la scienza, non si può fare attività scientifica senza avere almeno una visione implicita del mondo.
Ma fino a che punto la metafisica può essere autonoma? Questo è probabilmente il maggior punto di debolezza di coloro che insistono in qualche modo sulla superiorità della metafisica. Non c’è superiorità della scienza sulla metafisica o viceversa, ma un rapporto d’interscambio dialettico. Occorre, insomma, una concezione della metafisica meno pretenziosa: i criteri di intelligibilità del reale cambiano ed evolvono, proprio come accade per le teorie scientifiche. Lo stesso fatto che altre civiltà abbiano elaborato altre metafisiche, diverse da quelle prevalenti nella cultura occidentale, è un punto a favore del pluralismo metafisico. Si noti inoltre che, se parliamo di “condizioni di intelligibilità del reale”, risulta ardua determinare dei confini rigidi tra la dimensione ontologica e quella epistemologica (cognitiva). Per poter far questo, infatti, dovremmo adottare quel punto di vista – che ci è precluso a causa dei nostri limiti cognitivi – definito da Hilary Putnam “visione dell’occhio di Dio”. Le parole di Werner Heisenberg citate in precedenza servono a rammentarci che di tali limiti sono coscienti anche gli scienziati.
Una certa dose di relativismo deve allora essere considerata inevitabile, non appena si rammenti che la scienza è sempre il risultato dell’interazione tra mondo e soggetto che intende conoscere il mondo. La tradizione pragmatista, e in particolare Dewey, usa a tale proposito il termine “transazione” per denotare questo interscambio dove i contributi dell’osservatore e della realtà osservata non possono essere separati con una linea di confine rigida. In altri termini, quando ci chiediamo quali siano le caratteristiche della realtà che possono essere conosciute, occorre sempre rammentare di aggiungere la domanda “Da chi?”. Si può ammettere, ad esempio, che la natura presenti delle caratteristiche di regolarità indipendenti dal soggetto che la indaga. Tuttavia noi siamo esseri che l’evoluzione ha dotato di certe caratteristiche e non di altre, e ciò significa, tra le altre cose, che siamo sensibili a certi parametri fisici e non ad altri. La scienza fornisce certamente informazioni attendibili circa il mondo circostante, ma si tratta pur sempre di informazioni relative ad un certa visuale che è la nostra.
Non è difficile capire che in altri mondi il cammino della scienza potrebbe aver percorso strade diverse, ed è importante notare altresì che è proprio la scienza ad averci rivelato che le caratteristiche naturali possono essere differenti da quelle riscontrabili sul nostro pianeta. A fronte di questi dati, non occorre essere degli appassionati di fantascienza per giungere alla conclusione che altri esseri intelligenti potrebbero aver sviluppato una conoscenza scientifica scarsamente – o per nulla – paragonabile alla nostra. Si noti inoltre che, anche ammettendo l’unicità della natura nei suoi tratti essenziali, è ingenuo supporre che la descrizione di uno stesso oggetto da parte di soggetti diversi debba essere uniforme. Parlare di scienza tout court può quindi risultare fuorviante. La nostra scienza è indubbiamente l’unica che conosciamo, ma questo non dovrebbe indurci a scartare a cuor leggero la possibilità che vi siano “altri” modi di conoscere il mondo. William James notò a questo proposito che “se fossimo stati aragoste o api, potrebbe darsi che la nostra organizzazione ci avrebbe condotto a impiegare metodi alquanto differenti per capire le nostre esperienze. Potrebbe anche darsi (non si può negarlo in modo dogmatico) che tali categorie, inimmaginabili per noi oggi, si sarebbero dimostrate utili, tanto quanto quelle che usiamo attualmente. Tutte le nostre concezioni sono ciò che i tedeschi chiamano strumenti di pensiero (Denkmittel) intendendo con ciò che possiamo operare sui fatti pensandoli. L’esperienza in se stessa non si dà etichettata e classificata, dobbiamo prima scoprire di cosa si tratta”.
Dunque, la scienza di qualsiasi particolare periodo storico, ivi incluso il nostro, non garantisce che la realtà nella sua globalità sia proprio come essa la descrive. Il corso dello sviluppo scientifico fluisce lungo canali che riflettono la nostra costituzione fisica, il nostro apparato concettuale e, di conseguenza, i nostri interessi pratico-cognitivi. In altri termini, c’è un aspetto relazionale nella scienza che non può essere trascurato. Non solo: è in sostanza l’evoluzione culturale che determina ciò che è interessante per un dato gruppo sociale. Oggi viviamo all’interno di uno schema che ci porta a vedere la realtà secondo l’ottica di certe teorie scientifiche di successo come la relatività o la meccanica quantistica. Tuttavia è ragionevole presumere che anch’esse non reggeranno alla prova del tempo, proprio come accadde alle teorie scientifiche di successo dei secoli passati. Per questo motivo la storia della scienza svolge un ruolo chiave e, a tale proposito, si può dire qualcosa di più. Anche la storia della filosofia della scienza è importante, in quanto consente di comprendere come mutano i modelli mediante i quali i filosofi comprendono la scienza e riflettono su di essa. Sono sempre la scienza di un certo periodo e la metafisica di un certo periodo a entrare in contatto e a confrontarsi, ed è ancora una volta la storia del pensiero scientifico a farci capire che tra 100 o 200 anni i nostri successori vedranno le cose in modo diverso.
La separazione tra la dimensione fattuale e quella concettuale (riflessa nella distinzione sintetico/analitico) non è dunque precisa, ma quanto mai vaga. Tutto ciò che possiamo dire è che se la scienza della nostra epoca è corretta, allora le entità che essa postula esistono. Il che significa che una metafisica che sfrutta le conoscenze della scienza di una certa epoca è, essa stessa, tenuta ad adottare il medesimo atteggiamento ipotetico. In altre parole, se attribuiamo alla scienza un carattere fallibile e imperfetto non possiamo davvero fare a meno di trasferire tali caratteristiche anche alla metafisica. Richard Rorty ha ragione quando nota che la scienza naturale non è un genere naturale, essendo permeata in modo addirittura essenziale da valori storico-cognitivi. Tuttavia, anche la metafisica non sfugge a questo destino.
Ci si può ovviamente chiedere quale sia l’accezione del termine “metafisica” che si ricava dalle schematiche considerazioni svolte sin qui. E’ chiaro che se per metafisica s’intende un sistema compiuto e onnicomprensivo che deduce l’intera struttura del reale da uno o pochi principi fissati a priori, abbiamo finora parlato d’altro. Ma resta il fatto che il filosofo, in quanto tale, non ha in mano strumenti che gli consentano di vedere “più in là” di quanto vede lo scienziato in materia di ontologia (anche se è ragionevole ammettere che egli possa dire di più sul tema dei rapporti tra etica e scienza). Ho in sostanza proposto un’accezione più modesta (o, se si preferisce, meno pretenziosa) del termine. Si tratta di una metafisica che presenta degli inevitabili risvolti pragmatici, e che tiene conto del fatto che essa – al pari della scienza – evolve con lo scorrere del tempo e non è affatto isolata dagli altri campi del sapere umano.
Quali sono le conclusioni generali che si possono trarre dalle considerazioni sin qui svolte? In primo luogo, appare chiaro che esiste un senso minimale del termine “metafisica” cui risulta praticamente impossibile rinunciare, vale a dire quello secondo cui la metafisica incorpora la concezione più generale della realtà. Poiché nessun individuo può esimersi dall’avere alcune idee fondamentali circa il reale, neanche gli scienziati sono esenti da questa regola: al massimo si può riconoscere che alcuni di essi adottano una cornice metafisica implicita.
In secondo luogo, è arduo negare che vi sia un rapporto di “feed-back” fra conoscenza scientifica e riflessione filosofica. Ciò accade perché l’indagine scientifica muove sempre da uno schema concettuale di carattere generale rispetto agli enti che costituiscono oggetto d’indagine. Ma tale schema concettuale è in buona parte formato proprio da elementi a carattere metafisico. A differenza di quanto si sosteneva in passato, tuttavia, tali elementi metafisici risultano tutt’altro che rigidi e immodificabili. Basti pensare al fatto che le concezioni metafisiche tradizionali dello spazio e del tempo sono state in effetti modificate, in quanto esse non erano più compatibili con i risultati conseguiti della scienza odierna.
Ciò significa riconoscere che teorie che in passato si ritenevano assolutamente vere si sono poi dimostrate vere soltanto in riferimento a ben determinati quadri concettuali. Ricondurre la metafisica entro i limiti della nostra esperienza, pertanto, non significa svalutarla, ma riconoscerne il carattere intrinsecamente dinamico.
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