di Michele Marsonet. E’ tendenza costante del nostro pensiero quella di attribuire un’indipendenza assoluta a entità che, invece, sono soltanto prodotti dell’azione umana quando interagisce con il mondo circostante. Siamo, per così dire, indotti quasi naturalmente a ritenere che esistano enti che sfuggono al nostro controllo e debbano pertanto essere lasciati liberi di svilupparsi senza alcuna interferenza da parte degli esseri umani. Questo è vero – almeno in una certa misura – per la realtà naturale, che non dipende da noi per la sua esistenza e può al massimo, ma sempre entro certi limiti, essere controllata quando intendiamo ottenere da essa certi risultati.
La tendenza dianzi citata diventa però assai pericolosa quando dalla realtà naturale si passa a quella storica e sociale. Esiste certamente un “mondo umano” creato da noi che, in quanto tale e nonostante l’opinione di positivisti vecchi e nuovi, è regolato da leggi diverse rispetto a quelle che sovrintendono al funzionamento del mondo della natura. Max Weber aveva ragione nel notare che non vi può essere un unico metodo scientifico, applicabile in modo automatico a ogni livello della realtà.
Questo non significa che esista una sorta di mondo platonico in cui idee e teorie vivono una vita propria, del tutto sganciata dalle nostre capacità decisionali. Né significa ammettere che vi siano entità che, pur originate dalle nostre azioni e capacità concettuali, risultano impermeabili all’intervento umano. La storia del pensiero – non solo filosofico – è strapiena di siffatte entità che sono state “divinizzate”, rese così indipendenti da ogni intervento al punto che dovremmo essere noi a piegarci ai loro voleri, e non esse ai nostri. Abbiamo così assistito via via alla divinizzazione della storia, di una particolare classe sociale, dell’uomo stesso concepito in termini astratti. L’ultimo tipo di divinizzazione, che oggi influenza in modo radicale le nostre vite, si riferisce al “mercato”.
E’ un fatto curioso poiché, da una parte, il mercato è uno dei pilastri su cui poggia la visione del mondo liberale. Dall’altra proprio il liberalismo ha trovato l’antidoto per evitare le divinizzazioni di cui sopra. Tale antidoto è l’individualismo, vale a dire una concezione del mondo che antepone la libertà dell’individuo a qualsiasi altro valore.
Notava a tale proposito François Furet che “del liberalismo c’è una visione economica, elaborata soprattutto dal pensiero filosofico scozzese, che crede nell’autoregolazione delle società attraverso il mercato, ossia nell’idea che gli individui entrino in rapporto conflittuale sul mercato per produrre e consumare, ma che allo stesso tempo dalle decine, centinaia, migliaia di antagonismi individuali nasca una specie di armonia generale. E c’è anche una visione politica del liberalismo che tenta di mettere in primo piano la difesa delle libertà individuali, ricusando la possibilità di poteri troppo forti. La prima è la visione di Adam Smith e Bentham, l’altra invece è d’ispirazione francese, ed è quella per intenderci di Constant e Tocqueville. Ma per entrambe queste tradizioni, il liberalismo nasce da un deficit della sfera politica, perché si fonda nei due casi sull’autonomia dell’individuo nella società civile”.
Difficile negare l’indispensabilità del libero mercato nella società moderna, poiché non vi sono alternative plausibili qualora si intenda vivere in un ordinamento che assicuri degli accettabili livelli di benessere diffuso. Tuttavia, ho l’impressione che in alcune analisi odierne al mercato venga attribuita una dimensione autonoma e incontestabile (che sfocia, per l’appunto, in una sorta di divinizzazione). Qualunque intervento umano rischierebbe secondo questa vulgata di compromettere i meccanismi spontanei che l’hanno generato.
Ma bisogna domandarsi se, tra l’infeudamento dell’economia alla politica da un lato, e l’individualismo quale unico metro di giudizio dall’altro, non esistano davvero altre strade praticabili. In altri termini, ci si può chiedere se è realmente necessario passare dalla santificazione dell’interventismo statale a quella del libero mercato. Rammento che il fatto di aver concepito il mercato come una divinità ha a suo tempo impedito, negli Stati Uniti, qualsiasi regolamentazione dei derivati. I frequenti richiami all’economia reale si basano – ritengo – proprio su constatazioni di questo tipo, sulla distinzione tra economia produttiva ed economia finanziaria. Non è detto che quest’ultima abbia sempre carattere speculativo, ma la crisi che stiamo attraversando dimostra che tale carattere ha acquistato un peso sempre più rilevante.
Occorre quindi smetterla con le accuse di “lesa maestà” rivolte a coloro che invitano a ripensare il liberalismo e a considerare il mercato per ciò che effettivamente è: un prodotto dell’intelletto e dell’azione umani. Non è ragionevole ritenere che chi si muove in questa direzione sia uno statalista di ritorno. Altrimenti sorge il sospetto che anche nel campo liberale il dogmatismo abbia fatto breccia.
Featured image, Max Weber nel 1894.
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