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Fin che Barca va…

Creato il 03 ottobre 2012 da Albertocapece

Fin che Barca va…Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri, corredato di commenti estatici, circolava sul web una foto del ministro Fabrizio Barca, in treno – per la precisione in seconda classe, senza scorta, e mentre leggeva il Fatto, insomma uno spot della pubblicità progresso, un trailer della svolta sanitaria della politica avviata dai tecnocrati.
Lo so, sono incontentabile. Lo so, qualcuno mi dirà: ma preferisci Fiorito? Ma rimpiangi la Gelmini? Ma non ti conforta uno che legge il quotidiano della denuncia, che gira senza gorilla e che non viaggia in auto blu? Ma quante ne vuoi?
Ed è vero, la foto di Barca, che è proprio la rèclame della “buona politica”, discreta, austera, sobria, riservata, ma anche scapricciatella e un po’ spettinata, viene pubblicata – con sospetta ma efficace tempestività – a fronte di aragoste, caldaie, intemperanze fecali e così via, magari un po’ in ritardo sui fine settimana inopportuni di esponenti del governo e in anticipo sul configurarsi di sempre più acrobatici conflitti di interesse.

Ma funziona eccome. Lo hanno “capato” dal mazzo, giovanilistico, belloccio, preparato, nato da lombi rispettabili e comunisti, platealmente “onesto”, fatto insomma su misura per piacere a chi si riconosce nel pensiero forte del quotidiano-partito, a chi dopo il governo del pagliaccio è pronto ad accettare la gestione del boia in guanti di gialli, per non sporcarsi le mani col nostro sangue, dimentico che ormai di dovremmo riconoscere a fiuto i figli che tralignano e le cui colpe rischiano di ricadere sui padri.
E Barca, un “comunista” alla Ichino che svolta la lotta di classe in flessibilità, è più persuasivo nella scelta delle letture e dei vettori che nelle idee, nelle convinzioni e negli atti.

A cominciare appunto dall’entusiasticamente “pragmatica” adesione alla riforma previdenziale de La Fornero, alla cancellazione dell’articolo 18, all’intrusione in Costituzione del pareggio di bilancio per non parlare della sconcertante e sfolgorante determinazione a fare della città dell’Aquila, cancellata dal terremoto e dagli speculatori, una scintillante smart city, o peggio ancora dalla inclinazione all’equilibrismo di chi nella veste di studioso di politiche per il rilancio del Mezzogiorno, rinnega la legge 488, rea di rappresentare “il tentativo di manipolare l’economia e la società del Mezzogiorno con sussidi, gabbie salariali, imposte differenziali o esenzioni d’imposta e destinato ad attrarre le imprese e le teste peggiori, a richiamare investimenti e imprenditori “incassa e fuggi”, per poi invece perpetuarla nella veste di ministro, con il consolidamento del sistema degli incentivi-regalie. O che pensa di rilanciare la tanto promessa “crescita” sventolata come una bandiera, con quel Piano di Azione Coesione basato sui programmi cofinanziati dai fondi strutturali europei 2007-2013, destinato alle regioni Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. E del quale da maggio si è persa traccia, speriamo solo mediatica, avviato, si direbbe, solo per quanto riguarda la spesa di 845 milioni impiegati per obiettivi di inclusione sociale: cura dell’infanzia e degli anziani non autosufficienti, interventi a favore dei giovani per combattere la dispersione scolastica, insomma una doverosa e compassionevole riduzione dello Stato da motore di sviluppo di un new deal della coesione, ad onlus.

Eh si sarò incontentabile, ma mi pare che in molti si accontentino di troppo poco. Di potenti operazioni di immagini promosse da media compiacenti per accreditare il maquillage di un buon governo senza equità, di un’onestà senza trasparenza, di una riforma dell’occupazione senza lavoro, di una coesione senza solidarietà. Di membri dell’esecutivo “impuri” che al momento del voto esibiscono una fedeltà adamantina. Di sprezzanti della politica tradizionale, di schizzinosi dei rovinosi e corrotti partiti, già scesi in campo per contribuire alla “riqualificazione” delle spodestate organizzazioni. Di professori che non hanno imparato nulla dall’esperienza delle privatizzazioni avviata con la «svolta» degli anni ’80: i disastri dell’Ilva, dell’Alcoa, della Lucchini Sevestal, la scomparsa dell’Alfaromeo in mano alla Fiat, le autostrade in mano ai Benetton, le malversazioni dell’Eni in mano ai Ferruzzi, la sclerosi di Telecom, per non parlare dei rifiuti campani gestiti da Impregilo o dell’importazione e distribuzione di gas in mano agli eredi Ciancimino; e ancora, le Banche di interesse nazionale, accorpate, imbolsite e consegnate a una gestione «imprenditoriale» che, se venisse sottoposta a un autentico stress test, si ritroverebbe – come avverrà – nella stessa situazione di quelle spagnole: imbottite di crediti inesigibili dai grandi capitani dell’edilizia privata. Di ottusi esecutori di un disegno comandato da fuori che esigeva che l’industria, le infrastrutture e le stesse funzioni dello Stato venissero svendute – per non dire regalate – ai privati, spremendo fino all’osso quanto era ancora possibile ricavare da quei regali di Stato, per poi abbandonarli al loro destino; forse in attesa che lo Stato intervenisse di nuovo, magari mobilitando la Cassa depositi e prestiti, come già sta facendo a favore dei «piani di sviluppo» del Ministro Passera.

Siamo ancora in tempo a esercitare una ferma e tenace opposizione al governo più ideologizzato degli ultimi 150 anni, fatto di «tecnici» in gran parte prelevati da quella Università che ha usato la cooptazione senza verifiche per soffocare le spinte innovatrici del ’68, di un ministro del lavoro e del welfare che li ha annientai entrambi in una sola riforma, di un ministro dell’istruzione che si trova a suo agio sula scia della Gelmini; di un ministro della salute che si occupa di del gas delle bevande invece che dei gas e delle polveri dell’Ilva, tutti appartenenti a un’enclave di unti del signore che con la loro pura e semplice esistenza in vita ancora prima che al governo, ci condannano alla sorte dei figli di un dio minore.

Non molti anni fa del ministro Barca che ostenta costumi “normali” si sarebbe detto “ma che democratico”, che così si definivano gli appartenenti a una èlite quando di buon grado si mescolavano al popolino.
Ma la democrazia è un’altra cosa, si fonda sul rispetto dei diritti e della libertà di tutti e sulla lotta alle disuguaglianze, mai come oggi incrementate se il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni e se insieme è aumentato il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. Se cioè la ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo mentre declina il ruolo del lavoro. Se questo condanna interi ceti a restare segregati nella loro condizione senza speranza di uscirne in una spirale devastante. Se la povertà, non occasionale, non indotta da personale responsabilità, viene vissuta come una colpa che soffoca aspettative, meriti e inclinazioni.
Non fidatevi, anche i ministri più accattivanti hanno perso il treno, quello della democrazia.


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