Nota introduttiva: No, per quanto la prospettiva possa rendere felice il professor Puddu (beru Mariu?) non vi è in atto alcun tentativo di “regionalizzare” Rosebud, giammai! Una-tantum si può però decidere di dedicare questo particolare “cabudanni” alla bellissima isola di Sardegna e alle voci dei suoi tanti figli che vivono anche su questo sito. Così, oltre ad avere messo in-prima S’innu de sa Natzione – scritto dal sumenzionato Mario e musicato da Mariano Garau che gentilmente ieri ha inviato il link YouTube, ho pure pensato di mettere insieme due lavori – uno in prosa e uno in poesia – inviati di recente da Gavino e da Franco. Bonu annu nou a tottuse e poi crasi torraus a cumenciae…. Su prospettiva globale, Mario! Su prospettiva globale!:) RB.
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Finagliosu di Gavino Puggioni
Da bambino abitavo nella mia Finagliosu, uno stazzo situato nell’entroterra fra Stintino e l’Argentiera, non distante da Porto-Torres, l’antica Turris Libissonis di epoca romana.
Quel posto era ed è stato il paradiso della mia infanzia, perduta, ahimè! e ritrovata ,assai dopo, in quella memoria, mia e nostra, che ha milioni di mega-byts (sic?) che sono ancora, scientificamente, da scoprire.
Di quel paradiso ho ricordi nitidi anche di persone che cercavano di arrivarvi, non tutte buone…molti cattivi, molti maligni, pure raccomandati, per fare i custodi di greggi o per costruire un pozzo o, alla fine, per una semplice battuta di caccia e non solo al cinghiale.
Ma io, da bambino, di queste cose non sapevo niente, credevo di vivere la terra, dentro la terra, quella vera, fatta anche di fango, quello naturale, quello che, a volte,mi sporcava irrimediabilmente
le scarpine pulite che si calzavano una volta alla settimana per andare alla Messa domenicale, nella chiesa di San Costantino, a La Pedraia, distante un paio di chilometri, percorsi sempre a piedi, col sole o la pioggia, ai margini di un campo di grano o avena subito dopo riparato da un tranquillo boschetto di ulivi, oleandri, piante di mirto e querce secolari.
E il cielo sopra, grigio, azzurro o come Lui voleva, mi diceva nonna Feffa che di tempo e di nuvole se ne intendeva, altro che Bernacca!,
A qualche chilometro di distanza c’era la miniera di Canaglia, solo ferro e, dopo ancora, adagiato verso il mare, l’antichissimo borgo dell’Argentiera, miniera di blenda e argento, adesso residuato archeo-industriale, in cerca di altra luce che spero venga a risplendere assai presto.
Ricordi? Certo e anche ricordi bambini perché tali si era in quella natura ancora incontaminata dove nonna Feffa, gli anziani e babbo, seppur giovane, erano i fari sempre accesi per una vita, la mia, la nostra, per tante vite che si stavano aprendo alla terra, quella terra dalla quale, pochi anni più avanti, avremmo dovuto “fuggire” per colpa del…Fato avverso, oggi come allora, ma sempre latente.
Ho vissuto in quello stazzo gli ultimi anni di quel “fascio” di vita, non ho e non abbiamo patito la fame, la sete, né la miseria di quella guerra e nemmeno persecuzioni. Semmai, tutto il contrario, in quell’oasi, e non era la sola, poiché la campagna era fertile, donava i suoi frutti, era coltivata nel rispetto delle stagioni, popolata da tanti contadini che l’amavano e la rispettavano e babbo era uno di quelli, orgoglioso del proprio lavoro e di donare ad altri, di paesi vicini, quel che a loro veniva piano piano a mancare.
Entrambe le miniere, quella di Canaglia e dell’Argentiera , lo venni a sapere dopo, erano obiettivi possibili per bombardamenti nemici, come d’altronde l’Asinara e il porto commerciale di Porto-Torres, e questo per togliere ricchezza che produceva, oltre a tutto, anche estrema miseria umana, regalata a quegli operai per…lavorare ed esserne anche degni! ..(lasciamo perdere, per carità!..)
E allora succedeva che,da quelle miniere, due o tre volte alla settimana, forse di più, non ricordo bene, ora, partiva “l’allarme”, sibili prolungati di sirene (mai odissee!) che creavano il massimo panico fra gli adulti perché tutti si aspettavano bombardamenti a raffica, esplosioni e distruzioni di quel poco che esisteva ma che era tantissimo per noi.
L’allarme durava una trentina di minuti durante i quali babbo, mamma, nonna e tutti gli altri si andava di corsa verso una collinetta vicina alla cui base c’era e c’è ancora una grande grotta di roccia granitica, chiamata “la curona di ri faddhi” (la corona delle fate) e là, dentro, decine e decine di persone vi si rifugiavano, in attesa di quegli eventi tragici che grazie al cielo non sono mai avvenuti. Solo paura, terrore, spavento, anche se a noi, bambini, niente sembrava stesse accadendo se non l’incanto e la meraviglia di vedere tante persone, lì radunate, a guardarsi in faccia, chi a parlare, chi a pregare e si vedeva anche qualche rosario sgranellato da fragili dita di altre nonne assieme alla mia che l’aveva sempre in tasca del grembiule da cucina.
Qualche tartaruga si avvicinava alla grotta, girava tra di noi, non aveva paura, brucava steli verdi e teneri assieme agli amici passerotti mentre alcuni cani, Fido, Nerone, Mani Bianca, ci facevano da guardia ma non capivamo da chi.
Quando l’ultimo dei tre sibili di sirena cessava di farsi sentire, un boato di voci, un battimani all’unisono, quasi una liberazione, gli occhi puntati al cielo terso e…via!, tutti fuori da quella grotta, pacche sulle spalle, qualche abbraccio, perfino lacrime da occhi di coloro che in quella guerra avevano già perso un padre, un fratello, un amico.
E allora, noi bambini, di nuovo liberi, incontrollati in quella campagna,, giù nel sentiero che portava fino a casa, fino al patio grande dove svettava il mio olmo, un gigante della natura, vecchio di oltre cent’anni, testimone di altre vite ed ora della nostra, della mia, rimasta nella sua ombra per sempre.
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ANNU NOEDDU MIU
(a modu miu) di Franco Pilloni
Annu Noeddu miu,
has fattu prim’ ammostu
in su mari asiau
e t’indi ses assustrau
a biri su logu nostu:
seu in bena de donai
ma no tengiu coraggiu
sa manu de ammostai
poita seu ostaggiu
de su chi nat sa genti,
no m’hia a bolli fai
de atiri differenti,
ma a su tempus presenti
mi bastat su necessariu
su chi serbit de ordinariu
po no morri e campai.
A mei chi portu in ogus
cantu sprecu in dinai
po cinciddas e fogus:
prus de cos’ ‘e pappai
forzis po un’annu e mesu
in regimi ordinariu
a pipiu de logu attesu,
a diversu calendariu
anca sa dì est longa
cand’esti chene pani,
sa vida che unu cani
s’hiat a bolli passai.
Po no mi presentai
de is aturus differenti
no lessisti nienti
chena de mi donai:
finzas su chi no serbit,
imboddiccau in paperi
de oru e de argentu,
donnia spezi’ ‘e unguentu
po sa peddi allisai
e lamparas asullas
po mi dd’accotobiai;
no scarescias ampullas
de binus e licoris ;
e de medas coloris
camisas e crobattas;
a domu no imbattas
chene bittiri froris
cun prenda de amoris
tebidus o buddius
de candu fuaus pipius
a pantalonis cruzzus ;
cadenittas de bruzzus
cun pindallius de oru
po donai decoru
a s’arrelogiu ‘e marca;
streppu chi portu in barca
elettricu portatili
chi m’indittit sa bia
po arribbai a Baratili
partendu de ‘omu mia
poita de sa cranaccia
no bollu perdi traccia.
No bollu perdi arrastu
de su chi fui nendu,
annu chi ses intrendu
po medas ses nefastu,
si mi ponis in menti
ti nau privadamenti:
Bai, torra a furriai!
A nosu lassasì stai
teneus de spapparottai
is ous in pacchitteddus
a Pasca Mann’ arricius
fattus a pilloneddus
chi funti giai impinnius.
Annu miu Noeddu,
innoi has allichidiu,
manteni su fueddu:
bai de cuddu pipiu
e si no t’est abarrau
mancu pani tostau
po culliunai sa brenti,
arzia is ogus a celu
fai finta de nienti,
chistiona a bellabellu
e contaddi una faba:
Ch’ andat in paradisu!
Però, Noeddu, allaba
chi no ti scappit s’arrisu.
———–Traduzione di Franco Pilloni ———–
MIO ANNO NOVELLO
(a modo mio)
Mio Anno Novello,
sei nato bambinello
sull’Oceano Pacifico
ti sei poi spaventato
sopra il nostro villaggio:
sono in vena di dare
ma non trovo il coraggio
la mano per mostrare
perché mi sento ostaggio
del dire della gente,
e non vorrei apparire
dagli altri differente.
Ecco al tempo presente
mi basta il necessario
ciò che serve di ordinario
per vivere e non morire.
A me che ho negli occhi
quanto spreco han da fare
per scintille e per fuochi:
oltre che al mangiare
per più di un intero anno
in regime ordinario
a un bambino lontano,
con diverso calendario
dove il giorno è più lungo
vissuto senza pane,
e una vita da cane
gli piacerebbe avere.
Per non essere indicato
dagli altri differente
non lasciare niente
che non mi venga dato:
anche ciò che non serve,
ben involto con carta
d’oro sia o d’argento,
ogni sorta d’unguento
per pelli levigate
e lampade azzurrate
per renderle abbronzate;
non manchino bottiglie
di vini e di liquori;
assortisci i colori
a camicie con cravatte;
a casa non ti presenti
senza portare fiori
con i pegni d’amori
tiepidi o bollenti
di quando s’ era minori
con i calzoni corti;
catenelle da polso
con i pendagli d’oro
per rendere decoro
all’orologio di marca;
oggetti che porto in barca
elettrici portatili
che m’indichi la via
per arrivare a Baratili
partendo da casa mia
perché della vernaccia
non mi perda la traccia.
Non voglio perdere traccia
Di ciò che stavo a dire
Anno che stai per venire
Per molti sei nefasto,
e se mi dai ascolto
ti dico in confidenza:
scappa, torna indietro!
E lascia stare noi
Che abbiamo da aprire
Le uova in pacchettini
Per Pasqua ricevuti
Confezionati come uccellini
Che ormai han messo le penne.
Mio Anno Novello,
qui tutto è ultimato,
riprendi il tuo fardello:
vai da quel bambino
e se non ti è avanzato
manco pane indurito
per imbrogliare la panza,
gli occhi al cielo alza
e fa’ finta di nulla
parla a voce sommessa
e raccontagli una storia:
che andrà in Paradiso!
Però, Novello, attento
Che non ti sfugga il riso.
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Featured image Statuina muliebre esposta al Museo Arch. Naz. di Cagliari, autore Shardan, opera propria, fonte Wikipdedia.
Altra immagine, Angelo Morittu Nuraghe Corbos – Silanus, fonte Wikipedia.
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