Il mosaico che contiene i tasselli di oltre quattrocento film costruisce incastro dopo incastro la celebrazione del montaggio. Non c’è altro, qui, che non trovi senso nella sequenzialità scelta da Pálfi, e sebbene si sappia dai tempi di Ėjzenštejn che il montaggio fornisce significazione, in Final Cut arriviamo all’apoteosi: se non ci fosse il procedimento di taglia e cuci allora non ci sarebbe nemmeno il film in sé né la collaudata storiella d’amore che racconta. È curioso che Pálfi, giusto per ricordare è l’autore di Taxidermia (2006), abbia utilizzato un massiccio numero di pellicole dallo stampo classico (c’è La donna che visse due volte, 1958) e commerciale (c’è Avatar, 2009) per erigere il proprio monumento al cinema quando lui stesso è un’artista lontanissimo da quelle aree; l’uso dello scheletro narrativo che ricalca qualunque love story con annesso happy end o l’avvalersi di espedienti scadenti del tipo era-tutto-un-sogno, concorrono al tributo di un cinema che non appartiene al sottoscritto e credo nemmeno a Pálfi, comunque se ampliamo lo spettro visivo ritengo che sia lodevole il movimento concettuale del regista il quale, in un’ottica universale, ovvero l’ottica costitutiva dell’opera, ci restituisce un trattato perfettamente moderno sullo stato dell’arte. Perché nell’epoca attuale, imbolsita da flussi narrativi programmaticamente incanalati, l’incedere tramite lacerti sconnessi ed in teoria inconciliabili appare la migliore alternativa per un manufatto realmente organico basato su una molteplicità che sa ricongiungersi nell’unicità. E non vi è alcuna intercessione divina, “soltanto” la versatilità del medium cinema, qui trasportata, almeno per quanto concerne la montatura, all’acme.
Il mosaico che contiene i tasselli di oltre quattrocento film costruisce incastro dopo incastro la celebrazione del montaggio. Non c’è altro, qui, che non trovi senso nella sequenzialità scelta da Pálfi, e sebbene si sappia dai tempi di Ėjzenštejn che il montaggio fornisce significazione, in Final Cut arriviamo all’apoteosi: se non ci fosse il procedimento di taglia e cuci allora non ci sarebbe nemmeno il film in sé né la collaudata storiella d’amore che racconta. È curioso che Pálfi, giusto per ricordare è l’autore di Taxidermia (2006), abbia utilizzato un massiccio numero di pellicole dallo stampo classico (c’è La donna che visse due volte, 1958) e commerciale (c’è Avatar, 2009) per erigere il proprio monumento al cinema quando lui stesso è un’artista lontanissimo da quelle aree; l’uso dello scheletro narrativo che ricalca qualunque love story con annesso happy end o l’avvalersi di espedienti scadenti del tipo era-tutto-un-sogno, concorrono al tributo di un cinema che non appartiene al sottoscritto e credo nemmeno a Pálfi, comunque se ampliamo lo spettro visivo ritengo che sia lodevole il movimento concettuale del regista il quale, in un’ottica universale, ovvero l’ottica costitutiva dell’opera, ci restituisce un trattato perfettamente moderno sullo stato dell’arte. Perché nell’epoca attuale, imbolsita da flussi narrativi programmaticamente incanalati, l’incedere tramite lacerti sconnessi ed in teoria inconciliabili appare la migliore alternativa per un manufatto realmente organico basato su una molteplicità che sa ricongiungersi nell’unicità. E non vi è alcuna intercessione divina, “soltanto” la versatilità del medium cinema, qui trasportata, almeno per quanto concerne la montatura, all’acme.
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