Dev’essere stata nostra madre a insegnarci come si telefona, se non ricordo male, a metterci al corrente dell’etichetta da utilizzare per non apparire maleducato a un interlocutore che risponde e che non è il diretto interessato da coinvolgere nella conversazione che si vuole avviare, nella richiesta di notizie che si ha bisogno di chiedere, nella semplice constatazione che va tutto bene da un capo all’altro della linea perché è un po’ che non ci si vede e non ci si sente.
Una metodologia resa necessaria dal fatto che avere il telefono in casa non era così scontato, si poteva nascere e crescere fino a una certa età senza averne uno e ricorrere a quello pubblico più vicino per le urgenze e fornire il numero di quello dei vicini di casa in caso di necessità di essere rintracciati. La mia famiglia fino a un certo punto non ha posseduto un apparecchio telefonico, come non ha avuto sempre a disposizione un’automobile di proprietà, un ascensore condominiale e persino un bagno con tutti i crismi, nel senso di doccia, vasca e bidet se non un suo surrogato di plastica componibile da riempire di volta in volta di acqua fredda, indipendentemente dalla stagione. Cose che, come si dice, non usavano.
Ed è stato così, almeno per il telefono, fino a quando mio papà è venuto a comunicarci il nostro numero di cinque cifre – trenta centoventicinque – così, senza il prefisso che nelle chiamate urbane non doveva essere messo davanti. Da lì l’esigenza del training per irrompere con la giusta e buona educazione nelle vite degli altri con uno squillo ripetuto, che in certi frangenti risuona come un disturbo dell’intimità del quale bisogna scusarsi di default. Buongiorno/buonasera sono nome cognome, parlo con la famiglia cognome? Si/No (esiste la possibilità che si sbagli a selezionare il numero). Se si: C’è nome_interessato? Grazie buongiorno/buonasera.
Poi alle richieste di chiarimenti sui compiti e agli inviti per i giochi pomeridiani con merenda sono subentrate le chiamate romantiche, quelle con le quali si occupavano gli apparecchi per ore dolci e bollette salate, con fratelli e sorelle che rivendicavano il loro diritto a un uso analogo. Tanto che per ovvi motivi di privacy io preferivo munirmi di gettoni o, più tardi, di schede e utilizzare uno dei loculi di uno di quei posti pubblici della Sip che non esistono più, con le cabine insonorizzate la cui assenza di rumori esterni dava sin fastidio.
Ma oggi la telefonata non conserva più la drammaticità dell’evento unico, raro, persin costoso. Contratti flat e dispositivi personali, per non parlare della maggiore importanza che rivestono le conversazioni scritte (male) hanno svilito il pathos del parlarsi a distanza e senza faccia. Al telefono si costruivano e si distruggevano amori, si progettavano futuri di gloria, ci si attribuiva responsabilità di attentati e sequestri di persona, ci si rendeva irrintracciabili.
Ora tutto questo ha un significato e un sapore diverso, il parlarsi è una delle tante funzionalità digitali e non ne sto dando un giudizio morale perché anzi, per certi versi è anche meglio così. Lo stordimento da conversazioni fiume, si manifestavano rare e quindi lunghe in quanto concentravano più cose da dirsi, era una sensazione postuma che rimaneva appiccicata come una morsa sull’orecchio, rosso e indolenzito per tutto quel tempo con la cornetta tenuta schiacciata per l’intenzione di un abbraccio, in fondo il telefono e la persona con cui si parlava avevano la stessa voce.