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Finanziamento ai partiti. Il lungo filo della corruzione -1

Creato il 14 marzo 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Prima parte

latrippa
Era quella la II legislatura. E la DC era la padrona assoluta dell’INGIC (Istituto Nazionale Gestione Imposte di Consumo), la società che riscuoteva i tributi e le tasse. Per combattere la concorrenza di enti privati e per continuare a  vincere gli appalti nei vari Comuni d’Italia, i democristiani dell’INGIC diedero il via a una capillare campagna di  corruzione degli amministratori comunali. La campagna acquisti beneficò tutti e segnò l’inizio del consociativismo. Tutti i partiti   erano compromessi nelle malversazioni del pubblico denaro compiute attraverso gli appalti dei dazi di consumo. Si disse che quelli che costavano di più fossero gli amministratori del Pci: l’Ingic pagava onerose mazzette, vinceva  gli appalti e poi in piazza i democristiani tuonavano contro il pericolo rosso , che dal canto suo faceva propaganda e manteneva la  sua strutture con la sua fetta dei tremila miliardi – che a tanto ammontò la cifra del peculato nella intera vicenda INGIC.

Gli indagati furono 1.183, i rinviati a giudizio 600. Anche le Federazioni del PCI e del PSI di Pisa figurarono nell’elenco della corruzione programmata. Il Parlamento ovviamente negò le autorizzazioni a procedere per i parlamentari inquisiti e poi nel 1975  tutti vennero prosciolti.

 Intorno alla vicenda due delle intelligenze più luminose del tempo si scontrarono.

Per far funzionare la “macchina” di un partito di massa, sosteneva Ernesto Rossi, “occorre gettare sotto la sua caldaia quattrini a palate”. “Alcuni miliardi sono utilizzati ogni anno per l’organizzazione e le attività ordinarie, mentre altri vengono spesi per le campagne elettorali, per coprire i disavanzi dei giornali politici, per i congressi,  per i manifesti”.  E aggiungeva: “Lo scandalo dell’INGIC  ha dato la riprova che, per quanto riguarda i finanziamenti, i partiti non si distinguono in onesti e disonesti ma solo in partiti che hanno maggiori o minori possibilità di monetizzare il loro potere politico”.   Ma se i finanziamenti occulti ai partiti politici costituivano per lui  la più grave malattia delle democrazie moderne, era altrettanto  sfavorevole al finanziamento pubblico essendo convinto che questa soluzione  “non costituisse un efficace rimedio contro la corruzione della vita pubblica e contro gli altri fenomeni degenerativi imputati al sistema di finanziamento occulto dei partiti, e dall’altro comportasse alcune conseguenze indirette negative ancor più gravi dei mali che volevano curare”. I partiti erano organizzazioni private, non era ammissibile il loro finanziamento con denaro pubblico senza verificare che le somme versate fossero effettivamente spese per le finalità per le quali erano stanziate nel bilancio pubblico dello Stato.  Inoltre, il finanziamento non avrebbe potuto costituire un  rimedio ai mali imputati ai finanziamenti occulti perché sarebbe stato un finanziamento aggiuntivo e non sostitutivo di questi ultimi:  indicava dunque come rimedi  leggi per ridurre il fabbisogno finanziario dei partiti, con disposizioni dirette a contenere entro certi limiti alcune forme di propaganda più costose (manifesti murali, trasmissioni radio, ecc.) o ad alleggerire i partiti dell’onere di particolari spese durante le campagne elettorali, scaricandole sul bilancio dello Stato.

Dal canto suo, invece, Lelio Basso   giustificava  il finanziamento pubblico con la funzione  dei partiti, “gli  strumenti di cui si serve il sovrano, cioè il popolo per esercitare la sua sovranità”.   Ne  discende   che il partito adempie a una funzione pubblica nella società democratica, cui il finanziamento pubblico dei partiti non può essere estraneo: la loro attività culminante nella consultazione elettorale è un momento essenziale di vita democratica, dei partiti; e un paese che vuol essere democratico deve assicurare ai partiti i mezzi per vivere, come deve fornire i mezzi per le consultazioni elettorali. La sovvenzione, che era quindi un dovere da parte dello Stato, non aveva secondo Basso come contropartita il riconoscimento del diritto ad un intervento, per mezzo dei suoi organi, nella vita interna dei partiti, per controllarne l’attività. Il partito costituiva l’estrinsecazione diretta del sovrano, cioè il popolo, e si trovava perciò in una condizione diversa rispetto agli altri organi a cui erano attribuite funzioni specifiche. Allora, l’unico controllo ammissibile per il partito era costituito dal controllo del sovrano, cioè dei cittadini: scontenti del loro operato li avrebbero puniti non votandoli.

 Più ingenuamente visionario Basso, nel suo convinto innamoramento per una sovranità, ai giorni nostri impoverita e quasi dissolta, più disincantato Rossi, ma solo apparentemente, ambedue sono tremendamente attuali e amaramente profetici.

E come spesso succede, viene da dare ragione a tutti e due, soprattutto nella consapevolezza che la degenerazione per non dire la mutazione aberrante subita dai partiti perfino rispetto a quegli scandali anticipatori, è il segnale di un processo che ha investito tutta la vita pubblica,  esaltando antichi vizi e patologie bulimiche, avidità, cinismo, rapacità, accumulazione, esibizionismo, effetti collaterali del consumismo, dell’edonismo, della spettacolarizzazione, del primato della visibilità sulla reputazione e figli della privatizzazione della cosa pubblica, della sua amministrazione, convintamente promossa non solo da tycoon al potere ma anche dal potere di una ideologia imperante.

 Così che il finanziamento pubblico, sotto pseudonimo, ben lungi dal garantire la manutenzione delle macchine-partito, indirizzato in mille rivoli a sostenere attività altre, sempre più contraddistinte dalla custodia e dalla promozione di interessi e privilegi personali, non basta  comunque.

Così, in ulteriore dileggio di un pronunciamento popolare, inappagato da un ingannevole sistema di rimborso, distributivo e retributivo, che paga tutti in base a regole risibili e irrispettose del senso comune e anche del senso del ridicolo, ma soprattutto della democrazia, visto che le spese vengono risarcite a formazioni con l’1 per cento, a non eletti, a ignoti che non vorremmo mai conoscere, il ceto politico, come una idrovora, assorbe altri fondi a tutti i livelli territoriali, possiede e fa proliferare patrimoni immobiliari, compra Suv e cioccolatini, crea società fantasma o molto visibili, costituisce fondazioni, promuove gioco d’azzardo, corrompe e si fa corrompere, incontentabile, insaziabile, ingordo e indifferente al consenso, grazie a un sistema elettorale di nominati, insigniti, selezionati dall’interno.

(continua)


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