di Michele Marsonet. A 25 anni di distanza dalla pubblicazione del suo celebre e influentissimo saggio “La fine della Storia e l’ultimo uomo”, Francis Fukuyama ritorna sull’argomento con un nuovo volume intitolato “Political Order and Political Decay”, nel quale, in pratica, rovescia le sue precedenti posizioni. Come si rammenterà il politologo nippo-americano, prendendo spunto dalla caduta del muro di Berlino avvenuta nel 1989, si era lanciato in alcune audaci congetture destinate ad animare il dibattito tra scienziati e filosofi della politica per molti anni. E non si può certo dire che tale dibattito sia terminato.
La principale congettura era in sostanza la seguente. Fallito con il crollo dell’Unione Sovietica l’esperimento di un comunismo “concreto” (e non solo tratteggiato a livello puramente teorico), si doveva prendere atto che non esistevano più alternative plausibili alla democrazia liberale. Quest’ultima, pertanto, era destinata a diffondersi nell’intero pianeta senza incontrare sul suo cammino ostacoli significativi. Di qui anche l’idea – di enorme successo – che la democrazia stessa non soltanto potesse, ma anche “dovesse” essere esportata nei contesti in cui non era ancora presente.
Insomma una sorta di utopia speculare a quella marxiana poi aggiornata da Lenin. In un caso erano le leggi inevitabili della Storia (con la “esse” maiuscola) ad assicurare l’estinzione della lotta di classe e di tutte le contrapposizioni a essa collegate, con il risultato finale dell’instaurazione di una società priva di conflitti nella quale gli esseri umani avrebbero finalmente potuto vivere in armonia e su un piano di assoluta eguaglianza. L’idea di una “perfezione” da raggiungere nel mondo terreno, al contrario di Sant’Agostino che la collocava nel mondo celeste (Città di Dio), era in fondo il motore di questo grande affresco teorico.
Più modeste – pur se anch’esse di chiara matrice hegeliana – le tesi di Fukuyama. Al nostro autore, in fondo, l’idea di perfezione interessava assai poco, e il suo punto di partenza si basava sull’osservazione della realtà empirica. Ed era un dato di fatto, almeno a suo avviso, che il genere umano non possedeva alcuna alternativa praticabile alla democrazia liberale, ragion per cui si poteva di nuovo tirare in ballo il concetto di “fine della storia” sicuri che, questa volta, le smentite non sarebbero giunte.
Il problema è che, pur rendendosi conto che l’impianto della sua opera principale – pubblicata nei primi anni ’90 – non regge (e non occorre essere dei geni per capirlo), Fukuyama continua a sottolineare che “in tutti questi anni un sistema politico alternativo alla democrazia liberale, capace di essere accettato e di diffondersi nelle principali aree del mondo, non è emerso”. Verissimo, anche se subito dopo ammette che neppure la liberaldemocrazia è riuscita a trionfare ovunque. Al contrario, quando si è cercato di “esportarla” in aree e Paesi che ne erano prive, si è verificata una reazione di rigetto le cui drammatiche conseguenze stiamo sperimentando sulla nostra pelle proprio ora.
E non si tratta soltanto di questo. Non solo la democrazia liberale non ha trionfato, ma sta lanciando allarmanti segnali di decadenza in Occidente in genere e in particolare negli Stati Uniti, la nazione che più di ogni altra l’ha posta al centro della sua agenda politica cercando di promuoverne la diffusione, con le buone o con le cattive, in tutto il mondo.
Il politologo ricorre agli slogan sostenendo che la sua analisi elaborata dopo la fine dell’URSS altro non era che una reazione alla profezia di Marx: “la storia finirà nel socialismo”. Voleva dimostrare la falsità di quell’assunto e la verità del suo: “la storia finirà in un sistema composto da economia liberale e istituzioni politiche democratiche”, e ulteriori sviluppi di tale processo debbono essere esclusi.
Non è andata così, lo sappiamo tutti. Fukuyama, come del resto tanti altri, ha preso in considerazione soltanto i fattori economici e politici, scordando che la gamma dei valori umani è ben più ampia. Più preveggente di lui si dimostrò Samuel Huntington con il suo celebre volume “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, di poco posteriore al saggio di Fukuyama. Huntington comprese infatti che i fattori identitari e religiosi erano altrettanto – se non di più – importanti di quelli politici ed economici. Noi occidentali, dimenticando il nostro stesso passato, tendiamo sovente a sottovalutare il peso dei credi religiosi, salvo accorgerci, spesso troppo tardi, che essi giocano un ruolo fondamentale in altri contesti.
Il nuovo libro di Fukuyama menzionato in precedenza fa un’impressione assai minore del primo perché non contiene tesi eclatanti. La “narrativa” della storia appare sempre più difficile da descrivere e un segnale che ne indichi il termine non compare. Con buona pace di tutti coloro che insistono sulla fine della Storia e pure su quella della Scienza.
Featured image, cover