C’è solo una condizione peggiore di chi non fa o non può fare ferie: quella di chi le finisce. Di chi s’illude che il ritorno ai problemi quotidiani possa essere inghiottito dalle soste estive, natalizie o pasquali. Un’illusione che di solito dura una manciata di giorni per poi interrompersi col risveglio – brusco come un terremoto ed indigesto come una levataccia – che ci proietta direttamente a scuola, in auto, in ufficio: ciascuno al proprio posto di combattimento. Di nuovo. Come prima. Le ferie finiscono così per essere archiviate in fretta, accompagnate da un dispiacere che ciascuno esorcizza a modo proprio: chi con la gioia di rivedere i colleghi, chi con l’ottimismo di chi inizia una dieta e chi addirittura progettando le prossime ferie, nell’auspicio che arrivino presto.
Come se il peso della quotidianità fosse un incubo, mentre invece, a pensarci bene, rappresenta il vero banco di prova delle nostre capacità, dei nostri talenti, del nostro essere in grado di meritarcele, delle ferie. Tutti bravi, infatti, a pensare in grande e a sognare all’ombra di un ombrellone o quando si è reduci da un pranzo coi fiocchi, ma è al ritorno alla vita di sempre che si vede la differenza fra chi parla e chi fa sul serio, fra chi manda avanti il Paese e chi, con la propria pigrizia, contribuisce ad aumentarne le spese. La fine delle ferie, comprese quelle pasquali – solitamente brevi -, rappresenta pertanto un’occasione, per ciascuno, per ricominciare daccapo. per provare a far meglio. Per mettere più impegno contro questa crisi. Così che alle prossime ferie vi possano essere più italiani, rispetto ad oggi, a godersele.