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Tra gli esiti più significativi della crisi occidentale ve n’è uno che mi pare decisivo: gli U.S.A. non sono più la prima e più influente potenza mondiale.
Lo sviluppo economico e l’ancor più vertiginoso aumento demografico dei Paesi per esempio dell’Asia basterebbero per fornire i numeri reali di un capovolgimento epocale. Ma ciò che mi interessa analizzare adesso è come la crisi economica e politica degli Stati Uniti sia stata accompagnata da un decisivo fallimento del loro modello culturale, prodotto di un’industria (così come la intende Adorno) che ha permesso agli americani, dalle guerre mondiali in poi, di tenere in pugno le nazioni estere senza un controllo puramente, o primariamente, militare.
Tra queste nazioni spicca ovviamente l’Italia, che ancora oggi rappresenta con ostinata fedeltà una delle ultime roccaforti dell’industria culturale statunitense.
Considerando, ad esempio, la storia del nostro mercato cinematografico risulta evidente come la supremazia dei film americani sia sempre stata fortissima.
In un quotidiano del 1948 ho trovato un breve articolo che riportava l’accordo raggiunto tra l’allora Sottosegretario alla Presidenza, Giulio Andreotti, e il presidente della MPA (Motion Picture Association of America), Eric Johnsthon, sull’importazione da parte dell’Italia di 250 film americani per l’anno seguente.
Calcolando che ogni film rimane in sala per più giorni notiamo come per oltre un anno la programmazione delle nostre sale fosse totalmente dominata dalla presenza americana. E oggi? Se andiamo a guardare le programmazioni delle nostre sale vediamo la medesima situazione con una percentuale media schiacciante del 90% di film americani (il conto poi si moltiplica se consideriamo i passaggi televisivi).
Dunque, dando per assodata la potenza del cinema e il suo primato come comunicatore di massa che meglio di qualsiasi altro veicola messaggi espliciti o impliciti che permettono un controllo sociale, possiamo facilmente dedurre come da generazioni si sia insediato in noi italiani un “germe statunitense” del quale è difficilissimo liberarsi del tutto.
Sto parlando di un radicamento molto profondo che determina volontariamente o involontariamente molte delle nostre scelte e che grazie alle potenzialità del cinema di collegare i propositi di molteplici industrie ci espone di continuo alla loro influenza.
Questo però non agisce solo ad un livello profondo di abitudine e predisposizione ad esseri utenti di un tipo di modello culturale ma ci rende soprattutto assenti nei confronti del resto del mondo.
Qualche anno fa la classifica che stila l’elenco degli attori più celebri al mondo ha premiato un certo Shahrukh Kahn, attore di Bollywood venerato da oltre un miliardo di persone su questo pianeta, tra cui non solo la numerosissima popolazione indiana ma anche decine di mercati esteri (quello russo, africano, e anche quello americano..) attivi importatori delle colossali produzioni bollywoodiane.
Bene, quando Shahrukh Kahn è stato invitato alla Mostra del cinema di Venezia ad aspettarlo non c’era nessuno! Non un fan, non un giornalista!
Questo evidenzia una totale assenza della nostra opinione pubblica nei confronti di quei fenomeni di cui tutto il mondo si nutre e ai quali, se la nostra coscienza non fosse addormentata, vorremmo prendere parte.
E non illudiamoci che Shahrukh Kahn sia meno bello dei divi americani, o meno bravo.
Nonostante siano anni e anni ancora che quando guardiamo un film americano, in tv o al cinema, sappiamo fin dal principio come andrà a finire, e ancora anni e anni che continuano ad arrivarne di nuovi e sempre uguali, non riusciamo a partecipare (anche in quelle rare volte che ne abbiamo i mezzi) o quanto meno a comprendere altri modelli culturali.
I segnali che arrivano da Hollywood continuano, comunque, a confermare una crisi inesorabile e l’insuccesso registrato quest’anno dalla maggior parte dei colossal ai botteghini internazionali ne è l’ennesima prova. Con ostinazione i film americani ripropongono remake, falsi idilli e soprattutto trame di terrore.
La “fabbrica dei sogni” che era Hollywood si è definitivamente trasformata in “fabbrica di incubi”, specchio di un’angoscia sociale profonda e pericolosa.
Non più happy end e non più illusione catartica scientemente costruita, il cinema americano sembra aver perso il controllo per chiudersi in forme geometriche sempre più piccole.
Così è, per esempio, “Shutter Island” con il quale Martin Scorsese sembra emettere un ultimo, autorevole grido da un castello che si sgretola.
Non una lucida riflessione o un’analisi esplicita, bensì un’implosione di tecnica e sentimenti incontrollati che riassume tutta la storia dei generi della paura e li aggroviglia senza soluzione in una chiocciola.
Su quest’isola nessuna certezza, solo pazzia. Il protagonista, e lo spettatore con lui, è trafitto dalla violenza del passato (il nazismo, la malattia…) che si ripresenta attraverso incubi e fantasmi e che non gli permettono di vivere il presente.
Ogni certezza è negata e l’ultima volontà è l’oblio.
Anche la macchina da presa impazzisce e perde il filo delle azioni e intere sequenze presentano sconnessioni evidenti tra un’inquadratura e l’altra.
Martin Scorsese, cineasta meticoloso prodotto dalle majors più abbienti, ci lascia un’opera che è la negazione di sé stessa, che denuncia il valore stesso dell’illusione cinematografica, di quella tecnica manipolatrice che ha fatto di Hollywood il punto forte di un impero.
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