Roma, 17 Giugno 1983.
Sulla base delle dichiarazioni di alcuni pregiudicati appartenenti alla Nuova Camorra Organizzata, Enzo Tortora, volto notissimo della Rai e presentatore della storica trasmissione Portobello viene arrestato per ordine della Procura di Napoli con l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico e spaccio di droga.
Affronta il carcere e il processo, in cui non esita ad affermare a gran voce la propria innocenza e l’indecenza delle accuse.
Sarà assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Napoli il 15 Settembre 1986. Morirà due anni dopo per un tumore polmonare, che non è forse azzardato riconoscere come estrema conseguenza dell’ingiustizia subita.
L’affaire Tortora scatena immediatamente un vero e proprio linciaggio mediatico. Firme importanti del giornalismo d’allora si dichiarano accusatori convinti, come Camilla Cederna e Giorgio Bocca, o dubbiosi come Enzo Biagi e Indro Montanelli .
Tra i sostenitori dell’innocenza di Tortora si pongono, nettamente, e inconsapevolmente all’unisono, Giorgio Manganelli e Leonardo Sciascia: due dei maggiori protagonisti della cultura italiana degli anni Settanta-Ottanta, profondi conoscitori degli endemici vizi italici, animati entrambi, sia pure con stili e mezzi assai diversi, da una profonda passione intellettuale e civile che non può non far levare loro la voce in difesa di un uomo per bene (significativamente sarà questo il titolo del film che Maurizio Zaccaro dedicherà al caso Tortora nel 1999).
Sciascia, unito a Tortora da un’amicizia trentennale, corroborata dalla comune passione per Stendhal dall’appartenenza allo stesso partito (Radicale), scrive sul Corriere della Sera, il 7 Agosto 1983, un articolo, Responsabilità del giudice, in cui si dichiara certo dell’innocenza di Tortora e che riconosce il presentatore come la chiave di volta del castello di carte di accuse montato consapevolmente dalla camorra con il preciso intento di confondere le acque e intorbidare le indagini:
«Il caso Tortora è l’ennesima occasione per ribadire la gravità e l’urgenza del problema[delle carenze e delle disfunzioni della giustizia]. Un mese fa, alla televisione francese, ho dichiarato le mie perplessità e preoccupazioni relativamente alla massiccia operazione contro la camorra promossa dagli uffici giudiziari di Napoli e la mia personale convinzione che Tortora sia innocente. Non mi chiedo: “E se Tortora fosse innocente?”: sono certo che lo è. Il fatto di conoscerlo personalmente e di stimarlo uomo intelligente e sensibile (non l’ho mai visto in televisione), può anche essere considerato elemento secondario e magari fuorviante; ma dal giorno del suo arresto io ho voluto fare astrazione dal rapporto di conoscenza e di stima e ho soltanto tenuto conto degli elementi di colpevolezza che i giornali venivano rilevando. Non ne ho trovato uno solo che insinuasse dubbio sulla sua innocenza».[...]
Non credo nell’infermità mentale quando viene invocata o riconosciuta nei processi di mafia. Ma nella camorra e nei camorristi qualcosa di simile all’infermità mentale si intravede. Se vi piace potete anche chiamarla immaginazione, fantasia: io continuerò a considerarla infermità, criminale follia di criminali. Una follia, si capisce, non priva di metodo: e consiste il metodo nel confondere, nell’intorbidire, nel seminare sospetti e accuse, nel coinvolgere quante più persone possibile. Un costruire, insomma, uno di quei castelli di carte che basta poi toglierne una, alla base, perché tutta la costruzione crolli. E ho l’impressione che la carta Tortora sia stata messa proprio a chiave di tutta la costruzione: una volta che si sarà costretti a toglierla, l’intera costruzione crollerà e tutto apparirà sbagliato e privo di credibilità. E resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici, abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino che soltanto legge o ascolta le notizie.
Per singolare coincidenza, lo stesso 7 Agosto, per la stessa testata, Giorgio Manganelli scrive a sua volta La presunzione di colpa sul caso Tortora (che egli dichiara apertamente di non aver mai conosciuto né seguito) e con il suo gusto del paradossale sferza il malcostume nazionale dei colpevolisti invidiosi, che terrorizzati dal solo nome della Giustizia godono nel vederla colpire i privilegiati e i fortunati, ritenendo evidentemente che il suo compito sia quello di livellatore sociale, a ragione o a torto; e poco importa se, come la Fortuna, colpisce alla cieca:
l’italiano ha una paura, che è difficile giudicare infondata, della macchina della giustizia; ma quando vede una persona in qualche modo nota finire stritolata in quell’ingranaggio, prova un moto di torbida letizia, un giòlito sinistro.[...]
Si dimenticò più del decente che in Italia, come in ogni Paese civile, esiste una “presunzione di innocenza” dalla quale deriva che anche l’ uomo arrestato, ammanettato, fotografato al pubblico ludibrio va considerato innocente finché non intervenga una sentenza che lo dichiari colpevole “in nome della legge” e, suppongo, del popolo italiano”.
Ma se,nel diritto, si nega la presunzione di innocenza, vale a dire uno dei suoi stessi fondamenti che riconosce agli accusatori e non agli accusati l’onere della prova, le conseguenze saranno inevitabili, e lo saranno per tutti. Manganelli conclude, implacabile:
Oggi, all’ilarità-“volemose male” – per la catastrofe del noto presentatore tien dietro un sentimento nuovo: un disagio come di chi indossa panni che non gli si addicono: una diffidenza, un guardarsi attorno, sul chi vive. Esiste, poi, quella “presunzione di innocenza”? E’ stato saggio, è stato onestoi negarla a quell’uomo ammanettato? Quell’aggressione a quell’uomo non ancora giudicato non è stata un’aggressione a noi stessi? E’ chiaro: se quella “presunzione di innocenza “non è ben salda e fondata qualcosa d’altro ne prenderà il posto: una “presunzione di colpa” da cui è impossibile difendersi.
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NOTE A MARGINE
* Quando ho pensato a Sciascia e a Manganelli, per questo post, non immaginavo di riparare virtualmente ad un grande appuntamento mancato . Come racconta infatti Salvatore Silvano Nigro, già professore di Letteratura alla Sorbona e all’ École Normale Supérieure di Parigi e curatore di diverse opere di Manganelli per Adelphi, i due scrittori, pur così diversi nel temperamento, si leggevano reciprocamente con interesse, e Sciascia telefonò a Nigro per tastare il terreno a proposito di un eventuale incontro con Manganelli. Quest’ultimo si dice entusiasta di un viaggio in Sicilia, che avrebbe voluto visitare approfonditamente in compagnia di Sciascia (e Bufalino), ma purtroppo il viaggio non riuscirà ad essere organizzato prima della morte dei due scrittori, a a meno di un anno di distanza l’uno dall’altro (Sciascia scompare nel novembre del 1989, Manganelli nel maggio del 1990).
** Formulo qui l’auspicio di vedere un giorno pubblicato l’epistolario tra Sciascia e Tortora, attualmente custodito dalla Fondazione Sciascia di Racalnuto, paese natale dello scrittore.
Il testo integrale dell’articolo di Manganelli dedicato a Tortora (oggi in Mammifero italiano, Adelphi 2009).