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"Fino all'estate" di Francesco Pasqua

Creato il 09 maggio 2012 da Peterpasquer

Inutile. Suo padre non lo stava mai a sentire. Salvo gliel’aveva detto che non gli andava di sistemarsi lì, nello scompartimento adiacente la toilette, gliel’aveva ripetuto cinque volte che troppo rumore e andirivieni gli avrebbero reso il viaggio insopportabile. Niente da fare. “Certo, tanto sono io quello che deve viaggiare!” “Sì, però così se ti scappa non t’allontani troppo dai bagagli!”, ribatté l’anziano. “Sempre in piedi come i gatti, vero papà? Ora però scendi che stiamo partendo…” Salvuzzo, mi raccomando, fai buone cose a Roma. E appena arrivi chiama, non te lo scordare…” Era dalla sera precedente che non si rivolgevano la parola. Si erano coricati col veleno allo stomaco per via della solita litigata e adesso stavano cercando il modo migliore per lasciarsi. “Stammi bene, papà…”, e s’abbracciarono a lungo. Poi Salvo l’accompagnò all’uscita e l’aiutò a scendere il predellino. Faceva freddo quella mattina, non sembrava di stare a Siracusa. “Se vuoi andare a casa vai…”, gli accennò un attimo dopo dal finestrino. Tempo perso. Restare fino alla fine, col braccio levato in aria a salutarlo, era per suo padre un impegno dal quale non si sarebbe mai potuto esimere. Testazza dura…”1, pensò Salvo con la fronte poggiata sul vetro sporco. Era quella l’ultima immagine che ormai da anni portava con sé ad ogni partenza. Suo padre col braccio alzato sotto la tettoia della stazione. Quel piccolo uomo sempre più brizzolato e il suo sorriso sempre più lontano. Quando il vagone iniziò a muoversi il brivido della commozione lo colse al petto, inaspettatamente. Allargò la mano sul finestrino e fiatò un saluto. Riuscirono a fissarsi per circa dieci secondi, dopodichè il treno entrò nel tunnel e lui scivolò sul sedile ad occhi chiusi. Suo padre era ancora lì. Qualcuno aveva rotto la chiusura della toilette e al tanto rinomato tanfo made in Trenitalia si era sommato un puzzo selvaggio di urina. Inoltre, ad ogni curva o cambio di velocità lo sbattere di quella dannata porta impediva qualsiasi tentativo di prendere sonno. Che fare? Salvo alzò lo sguardo e provò a convincersi che lo scorrere del panorama calabro non era poi così male. Davanti a lui un vecchio, salito a Lentini, sbucciava un tarocco con un coltello tipico da contadino. Il profumo dell’arancia era intenso, assai più invadente del cattivo odore che ancora filtrava da sotto la porta scorrevole. Salvo fissò l’uomo con ammirazione. Sopra i baffi le rughe erano fitti rovi attorcigliati agli occhi, le mani fogli sui quali leggere non una vita ma un’intera generazione. Si ricordò di suo nonno e di una domenica in campagna. Si ricordò di un ulivo sotto cui si misero ad ascoltare il respiro delle foglie. Stavano seduti su un muretto a secco. Il braccio di suo nonno sulle sue spalle di undicenne e la propria faccia costretta su quella camicia. Agrumi e sudore. Di questo sapeva suo nonno. Di questo sapeva quel vecchio con la mano tesa verso di lui. “Vuole favorire?”, gli chiese con voce tremula. “No, la ringrazio…” “Non faccia complimenti, ho visto come mi taliàva2… Le piacciono le arance, vero?” “Sì…” “E allora pigghiasse3, forza…” “Grazie…”. Salvo allungò la mano e ne staccò uno spicchio. Il vecchio spiegò un tovagliolo di carta e lo depose sul ripiano accanto al finestrino. Gli poggiò l’arancia e si rimise il coltello in tasca. “Quando vuole può servirsi…” “No, grazie. Era solo per farmi la bocca…”4 e il vecchio sorrise. “Di unnè lei?” 5, chiese. “Di Siracusa…”, rispose Salvo. Il vecchio fece sì con la testa, lo sguardo rivolto al Tirreno. “Una volta a Siracusa si faceva un grande moscato. Ora…” “Ora pare stia riprendendo la produzione… Certo, rispetto a prima…” “Quella minchia di zona industriale… I sarausani si ficiru futtiri…6, e s’infilò in bocca uno spicchio. Salvo sapeva a cosa si riferiva il vecchio ma, come sua consuetudine, evitò d’impelagarsi in un tale dibattito. La Democrazia Cristiana, l’inquinamento atmosferico, la contaminazione delle falde acquifere, i terreni andati a male, il degrado di una litoranea tra le più belle al mondo, le nascite di bambini malformati, erano tutti argomenti capaci solo di guastargli il viaggio, giacché non era con una semplice chiacchierata che avrebbero risolto l’annosa questione. Inoltre, ironia della sorte, se suo padre era riuscito a mantenere una famiglia era proprio grazie al suo stipendio di operaio presso la Montedison di Priolo. Così inghiottì e sorvolò. “Dove scende lei?” “Napoli. Vado a trovare mio figlio…” “Lavora lì?” “Sì, javi cinc’anni ormai… Uora nascìu ma niputi e staju acchianannu…7 Lei pure scende a Napoli?” “No, a Roma…” “Studia?” “Ho concluso sei anni fa…” “A Roma c’è cchiù travagghiu, vero?”8 “Rispetto a giù sì, ma non nel mio campo…” Na vota un figghiu dutturi dava lustru, uora mancu chissu…9. Salvo soffiò un sorriso sulle sue braccia conserte. Avrebbe voluto rispondere ma l’espressione burbera di suo padre glielo impedì. Si fece serio e s’alzò. Raggiunse il corridoio, abbassò il finestrino e si sporse per prendere un po’ d’aria. Quella di Paola sarebbe stata la prossima fermata. La ragazza era davvero uno schianto. Aveva un delicato profumo di muschio bianco e un’aria da segretaria porca. Gli occhi vispi, sottolineati da un uso intelligente dell’eye-liner, scorrevano con attenzione le frasi che dal pc portatile (adagiato su deliziose gambe da pin-up) si riflettevano su raffinati occhiali in tartaruga. Teneva un incisivo premuto sulla lucida polpa del labbro inferiore e tre dita in perenne movimento sul decolletè. “Scusi signorina, sarebbe così gentile da farmi un pompino?”, pensò Salvo non appena si sfiorarono con lo sguardo. Era la trentaduesima volta che provava a trasmetterle il suo profondo sentimento. Niente. L’unica reazione degna di nota fu vederla sistemarsi la minigonna di appena un centimetro verso il ginocchio. Era davvero adorabile con quelle sue movenze. Gli ricordava Riccarda, una tipa che frequentò qualche mese dopo la sciagura con Simona. Brevi chiacchierate pomeridiane davanti ad un caffé e lunghe spossanti scopate fino all’ora di cena. Una vera regina del sesso. Simona quelle cose nemmeno a pensarle. “E allora perché parliamo sempre di lei?”, gli chiese Riccarda una di quelle sere. “Se ti dà fastidio evitiamo. Ti dà fastidio?”, le domandò baciandola sul seno. “È che non riesco a capirti. Dici che con me stai bene però… Ecco, è quel però che mi fa incazzare!” “Sei incazzata?” “No, Salvo, non sono incazzata. M’incazzo quando fai finta di non capire e non mi rispondi…”, e si coprì col lenzuolo. “Ma te l’ho detto centinaia di volte! Con te è come stare al Luna Park, mi diverto un sacco, solo che… Con Simona erano altri sentimenti, capisci? Ci sono stato quattro anni. Quattro anni di…” “Ho capito benissimo, però se con lei il sesso non andava…” “Andava, andava. Non andava come va con te ma andava…” “E ora che hai provato il brivido, ci torneresti a scopare con lei?”. Salvo sbuffò. Riccarda allora gli saltò addosso. Nuda, statuaria, bella, lo sguardo ferito. “T’ho fatto una domanda.” “Non lo so, forse no. Ma non è una questione di sesso. Non tornerei con lei per tutto quello che ha fatto e che ha detto. Chiamalo orgoglio, chiamala imm…” “Sappi che io non t’avrei lasciato…” “Ma che stai dicendo?” “Io non t’avrei lasciato! Almeno non per un motivo così volgare.” “Ma che ne sai? Forse saresti scappata anche prima!” e provò a sdrammatizzare facendole il solletico. Riccarda lo fermò. Era ancora accigliata. “Stai cominciando a piacermi. Ecco perché ti faccio sempre questi discorsi. Vorrei esserci solo io nella tua testa…” “Anche a me piacerebbe che ci fossi solo tu…”. Si guardarono senza nulla aggiungere. A Riccarda l’indomani l’attendeva la consueta levataccia per recarsi allo studio dentistico presso il quale faceva tirocinio. Salvo invece aveva un colloquio con una professoressa per discutere di un laboratorio didattico contro la dispersione scolastica. Sulla porta il bacio fu intenso quanto il rossore negli occhi di lei. “Ci sentiamo domani a pranzo?” “Come vuoi…”. Non si videro più. Giunti a Napoli i treni sostano più del dovuto e quando riprendono la corsa verso Roma procedono al contrario. A Salvo dava particolarmente fastidio stare seduto nella posizione opposta rispetto al senso di marcia, così approfittò del posto lasciato dal vecchio e si sistemò lì. “Buon proseguimento. E lei facissi cose buone a Roma, mi raccumannu…”10, gli disse poco prima di scendere. Sul marciapiede trovò un uomo sui quarantacinque pronto ad abbracciarlo, probabilmente suo figlio. Salvo se l’era immaginato più giovane, chissà perché. Poi calcolò a occhio l’età del vecchio e i conti tornarono. Rifletté sulla storia del nipotino appena nato e non poté evitarsi un muto commento sul fatto che ormai – anno 2005 di nostra vita - si diventa papà sempre più attorno ai quaranta. “Sarà un paese di padri che faranno da nonni ai propri figli…”, pensò mentre li osservava andar via a braccetto. La bellissima intanto conversava al cellulare. La voce intonata all’aspetto. “Napoli…”, disse ad un certo punto. “…non lo so, dipende da quanto ci mettiamo a partire…”, continuò leggermente infastidita. Infine, dopo una serie di mugugni e risolini si decise a chiudere. Nel frattempo i passeggeri saliti in carrozza superavano con indifferenza lo scompartimento dei due, forse con la speranza di trovare una migliore sistemazione più avanti. Del resto perché fermarsi all’inizio se c’è un intero vagone a disposizione? La bellissima tirò la tendina e fece per chiudere la porta. Un signore sulla cinquantina sbucò in quell’istante. Sotto al giubbotto un grappolo di orologi e collane. “No, grazie, non ci…”, rispose Salvo senza pensarci. È robba bbuona, guaglio’. Originale!”, insisté quello. La bellissima guardò altrove e lasciò a Salvo l’arduo compito. “No, davvero, non abbiamo bisogno…”, e il tizio si dileguò. “Si parla sempre della furbizia dei napoletani ma questi mi sembrano proprio deficienti!”, disse all’improvviso la bellissima. “Perché, scusa, che…” “Ma chi vuoi che compri niente da quello? Chi ci casca più?”. Adesso stavano l’uno affianco all’altra. Oltre al muschio Salvo respirò pure della menta. “Forse qualcuno che ci casca lo trovano sempre…”, le disse solo per sentirla rispondere. “Macchè! Giusto due idioti forse…” “Dici che c’ha scambiato per due idioti?” “Può essere…”, e sorrise. Da porca si fece santa. “Sai quanto dura di solito qui la sosta?” “A Napoli? Giusto il tempo per far completare il giro al tizio di prima…”. Altro incantevole sorriso. “Comunque io mi chiamo Salvo…” “Piacere, Luana…”. Pioveva a dirotto. Alla stazione di Latina i passeggeri assisterono all’anteprima del film Butta la mamma sotto al treno!, un’esilarante commedia con protagoniste una grassa signora e la sua piccola figlia nel difficile ruolo di trolley. Poco più in alto, sopra al viavai di gente affannata, oltre gli schizzi e i ciaf-ciaf, Salvo e Luana tentavano una vicinanza. “Scusa saresti così gentile da concedermi un bacio?”, pensò Salvo durante una pausa nella loro conversazione. Niente, nessun risultato a parte una confidenza su quello che era il suo sogno sin da ragazzina. “Sto cercando di aprirmi una carriera come assistente di volo…” “Tu hostess? E che ci fai su un treno?” “Indovina?” “Ci sono agitazioni?” “Esatto!”, e risero. “Ho appena concluso i sei mesi di tirocinio a bordo. Tra giorni ho l’esame a Roma per l’attestato di Primo Soccorso ed Emergenza.” “In bocca al lupo allora!” “Crepi. Poi si spera nel solito contratto stagionale e poi…” “E poi?” “E poi spero che la compagnia non fallisca e mi richiami prima possibile. In teoria dovrebbero passare altri due o tre mesi. In pratica anche un anno intero. Nel frattempo posso solo spedire altri curricula e sperare che mi chiami qualcun altro…” “È il motto di noi tutti!” “Quale?” “Sperare!”. Il treno riprese a camminare. Della mamma e della sua bambina-trolley nessuna traccia. Salvo controllò l’orario sul display del proprio cellulare: circa un quarto d’ora di ritardo. “E tu invece? Ti sei laureato hai detto…” “Sì, in lettere. Adesso lavoro in un call-center…”. Luana spiccicò le labbra e abortì un commento. Le si era raggelata in viso una strana espressione d’imbarazzo. “So a cosa stai pensando”, le disse Salvo guardandola negli occhi, “…sono d’accordo con te!”, quindi reclinò il capo e si perse nel ciondolare della maniglia della propria valigia. “Che ci faccio a Roma? Perché sto andando a Roma?”, si chiese. Il silenzio di suo padre tornò a farsi vivo. Era seduto al tavolo della cucina e incideva con un coltello le circa trenta castagne da arrostire nella sua personalissima padella forata. “A che ora è il treno domani?”, gli aveva chiesto senza guardarlo. “Presto. Alle sette dobbiamo essere alla stazione. Se per te è un problema mi faccio accompagnare da qualcuno…” “No, non c’è problema…” “Magari c’è freddo e…” “Tu non ti preoccupare, m’abbottono…”, e mise le castagne sul fuoco. “Tutto a posto?” “Sì…”, rispose suo padre. “Non è vero. Mi devi dire qualcosa?”. L’anziano accese la fiamma e coprì la padella con un coperchio. Un buon odore di bruciato raggiunse Salvo ancora in piedi ad attendere. Suo padre diede una scossa alle castagne e lo fissò. “Quanto deve durare ‘sta camurrìa?”11 “Dura quanto dura…” “Ah sì? Ma chi sta’ fannu?12 “Senti, me ne vado di là. M’annoia parlarne…” “Ah, t’annoia? Invece uora t’assetti e parramu!”.13 Salvo scansò la sedia e s’accomodò. “Che vuoi sapere? Se mi piace quello che faccio? No, non mi piace. Però questo ho trovato! Anche a me piacerebbe avere un lavoro adeguato ai miei studi ma… Papà, insomma, ti guardi intorno? Li leggi i giornali? O forse ti bastano le minchiate che senti in televisione?” “Ma allora, se come dici tu non trovi niente che ti serve, perché non te ne torni? Che motivo c’è di pagare l’affitto a un cornuto se qui hai una casa tua? Spiegami questo!” “Intanto l’affitto finalmente riesco a pagarmelo…” “Salvo? Quando parli talìami ‘nta facci14 Tu quel lavoro puoi farlo anche qui e lo sai. Fino a quando mi dicevi che era una cosa provvisoria, che ti serviva solo a guadagnare qualcosa mentre cercavi dell’altro, mi stava bene. Ma ora passàru du’ anni!15 Non t’ho pagato l’università per rispondere ad un telefono!”, urlò nel fumo della cucina. Le castagne erano pronte. “Che devo fare allora? Tornarmene a Siracusa per starmene tutto il tempo a casa?” “Ma qui non stavi provando a lavorare con le scuole? Perché hai abbandonato?” “Perché facevo i progetti, li presentavo e me li bocciavano con la scusa che non c’erano fondi. Però intanto i soliti noti facevano laboratori a tinchité!16 Quando m’accettavano i laboratori mi pagavano dopo un anno… Era vita quella?” “E questa? Questa vita me la chiami? Quando studiavi almeno facevi sacrifici per un pezzo di carta, ora mi pare che ti sacrifichi a tempo perso!” “Però forse, dico forse, a Roma posso sperare in qualcosa…” “Hai 35 anni, Salvo! Ancora speri? Io non sono eterno…” “Che c’entra questo adesso?” “Niente. Non c’entra niente…”, poi tossì e ci mise su un po’ di vino. “Ne vuoi una?”, riprese. “No. Non lo sai che le castagne mi fanno schifo? Saranno dieci anni che cerchi di farmele mangiare…” “Le mangiavo assieme a tua madre. Volevo solo un po’ di compagnia. Non ti preoccupare, se non ti piacciono non casca il mondo…”, quindi abbassò gli occhi sul piatto e riprese a sbucciare. Roma Termini era vicina. Dal finestrino l’enorme cavalcavia sulla Prenestina sfoggiava tutta la sua arrogante bruttezza. Salvo come al solito buttò un’occhiata al negozio di toupet all’inizio della via. Era una sua fissazione quella di prepararsi subito dopo averlo superato. Lo trovava pacchiano e ridicolo ma era diventato il suo anomalo e insensato punto di riferimento da circa due anni. Indossò il giubbotto, prese la valigia e aspettò che Luana si sbrigasse con la sua agenda. Lei se n’accorse e gli sorrise con un foglietto in mano. “È la mia e-mail. Se ti fa piacere…” “Certo, come no! Aspetta che ti do la mia…”. Una volta arrivati a destinazione si lasciarono davanti alla metro. Lei avrebbe preso un taxi. “Allora ci sentiamo. Scrivimi…” “D’accordo. Appena posso senz’altro. Ciao…” “Ciao. A presto…”, e sfilò via con un’andatura proprio da hostess. Salvo resisté tre secondi, poi si voltò e si beò di tanto splendore. “Fortunato chi ci riesce…”, si disse prima di incamminarsi verso le scale mobili della metro. “Salvo!” Ancora Luana. Ancora quel sorriso. “Sì?” “In bocca al lupo per tutto!” gridò in mezzo al caos. “Grazie… Anche a te!” “Si dice crepi…” “Hai ragione! Crepi… Ci sentiamo. Ciao…” e avrebbe voluto abbracciarla, baciarla e sposarla. Ci pensò per tutte le tredici fermate che compongono la via crucis Termini-Subaugusta. Chiuse gli occhi e immaginò la bellezza di centotrentasette inviti a cena formato e-mail. Immaginò persino che, non vivendo ancora a Roma, lei avrebbe avuto prima o poi bisogno di un appoggio. Immaginò allora che avesse un’anima tanto gentile da digerire pure il suo squallido appartamento in affitto sito in via delle Rose a Centocelle. Immaginò questo e ben altro ancora. Poi, giunto a Piazza Cinecittà, il fetore nell’autobus 451 mise tutto in discussione. Il biglietto sul tavolo lo informò che Francesco, suo coinquilino, avrebbe trascorso la settimana in paese per via del compleanno della madre. Un presentimento scorticò i suoi pensieri. Aprì il frigorifero e ne subì la sentenza: occorreva fare la spesa. Guardò l’orario: troppo tardi. In dispensa solo pasta e una busta di carta marrone. Castagne. “Pronto?” “Ciao, papà, sono io…” Arrivasti finalmente. Com’è andato il viaggio?” “Bene, solo un po’ di ritardo… Com’è? Stai cenando tu?” “Mi stavo facendo la carne con un po’ d’insalata. Tu che ti fai?” “Ora vediamo… Qualcosa m’invento. Noi, che fa, ci sentiamo dopodomani?” “Va bene. E senti…” “Cosa?” “No, niente. Per quella…” “Sì, papà, tranquillo. Non è successo niente…” “Va bene. Allora ti chiamo io dopodomani…” “Sì…”, poi Salvo fece un lungo respiro. “Tutto a posto? Mi devi dire qualcosa?” “Papà, senti io… Dammi tempo fino all’estate.” “Va bene, non ti preoccupare. Vai a mangiare e riposati…” “No, parlo sul serio. Aspettiamo l’estate e poi…” “E poi ci pensiamo, va bene?” “Va bene. T’abbraccio…” “Ciao, Salvo, buonanotte…”. Tornò in cucina e accese la tv. Il presidente del consiglio parlava ancora a viso scoperto, Papa Ratzinger ghignava a braccia levate e Fabio Fazio balbettava cose simpatiche da conduttore simpatico. Una soubrette dal culo fantastico iniziò a ruttare frasi sull’importanza della pace nel mondo, sul matrimonio e sul ruolo della famiglia. A Salvo venne in mente Simona. Si domandò se ancora frequentasse quel belloccio del Rotary. “Magari adesso è incinta di lui…”, pensò aprendo l’agendina che s’era portato dall’ingresso. Appuntò l’e-mail di Luana, quindi si voltò e spense il fornello. Le castagne erano pronte. 1 Espressione siciliana (Siracusa) per indicare, scherzosamente, una persona testarda. 2 “[…] ho visto come mi guardava…” Taliàre in siciliano vuol dire guardare. 3 Prendesse. In italiano la frase suonerebbe così: “E allora ne prenda un po’, forza…” 4 Espressione tipica siciliana (Siracusa), qui italianizzata. La si usa solitamente quando si assaggia qualcosa per togliersi un cattivo sapore. 5 “Di dov’è lei?” 6 “I siracusani si sono fatti fottere…” 7 “Sì, sono passati ormai cinque anni. Adesso che è nato mio nipote sto salendo…” 8 “A Roma c’è più lavoro, vero?” 9 “Una volta un figlio laureato era motivo di orgoglio, adesso neanche questo…” 10 “[…] faccia buone cose a Roma, mi raccomando…” 11 “Quanto deve durare questa seccatura?”. 12 “Ma cosa stai concludendo di buono?”. L’espressione viene qui usata con questa intenzione. 13 “[…] ora ti siedi e discutiamo!” 14 “[…] guardami in faccia…” 15 “[…] sono passati due anni!” 16 L’espressione siciliana a tinchité è traducibile con l’italiana a iosa.   

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