È la storia sentimentale di una canaglia o la storia di una canaglia sentimentale? È entrambe le cose, il film d’esordio di Godard, Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960), ovvero l’impossibile conciliazione tra il pericoloso gioco ingaggiato con la morte e l’amore, che finiranno entrambi con uno scacco. La morte e l’amore sono infatti i temi dominanti, esplicitati attraverso rimandi disseminati per tutto il film, ma senza alcuna connotazione drammatica o epica, con la leggerezza tipica del protagonista. La morte è prefigurazione, preannunciata o anticipata da alcuni elementi. La scritta su un manifesto campeggiante in un’inquadratura al suo passaggio: «Vivre dangereusement, jusqu’au bout!» («Vivi pericolosamente, fino alla fine!»). Oltre a contenere una parola del titolo, che qui assume ben altro significato, potrebbe essere il motto di Michel. Oppure, in modo più emblematico, quello strano incidente in cui un uomo muore sul colpo, apparentemente senza alcun significato, contribuisce a far presagire un tragico finale. A Patrizia, che gli chiede sulla scorta di una citazione di Faulkner («Tra il dolore e il nulla io scelgo il dolore»), cosa sceglierebbe, risponde che «Il dolore è idiota, io scelgo il nulla», dichiarandosi dunque, sebbene tra un motteggio e l’altro, pronto alla morte.
Tutto il film è poi un discorso quasi ininterrotto sull’amore, ne parlano a più riprese i protagonisti, confrontando i loro punti di vista divergenti, ne parla lo scrittore intervistato all’aeroporto, le cui risposte da intellettuale altezzoso gettano una luce trasversale anche sulla vicenda dei protagonisti. Quando esclama ad esempio che «La donna americana domina l’uomo. La francese non lo domina ancora», sembra di poter scorgere una chiave di lettura del rapporto tra Michel e Patrizia, dato che anche lui aveva parlato scherzosamente di «riconciliazione franco-americana». E l’alterità di Patrizia, la difficoltà di comprendersi, è costantemente ribadita dal fatto di ignorare il significato di molte parole, che non manca di rilevare candidamente. Persino il senso delle sue ultime parole, prima dell’ultimo respiro le sfugge, quell’insulto privo di rancore che ha più il sapore di un bacio, chiedendo attonita nel suo modo abituale agli astanti: «Che cos’è “schifosa”?». L’estraneità di Patrizia in fondo non è dovuta soltanto al suo essere straniera, ma soprattutto al suo essere donna.
La combinazione dei due elementi la rende un oggetto del desiderio ancora più irraggiungibile e inafferrabile, la sua estraneità è radicale, i loro due mondi possono solo toccarsi fuggevolmente, ma è impossibile una conciliazione. È quando si fronteggiano seduti sul letto, che si precisano le loro rispettive e contrastanti visioni dell’amore, incarnanti due modelli diversi: lui sa ciò che vuole, mentre lei, con un tratto ormai cristallizzato, tipicamente femminile, vuole e disvuole, temporeggia, fino alla fine. Per poco, ma solo per poco, sembra raddolcirsi, provare uno slancio, poi rivela la sua vera natura di donna ingenuamente crudele, forse incapace di amare, almeno di amare proprio lui, dimostrando tutta la sua volubilità. Questo gioco ingaggiato con la morte e con l’amore è lei a condurlo, per capire se lo ama ha bisogno di metterlo in pericolo, è lei che con assoluto candore lo conduce davanti alla morte, dall’abbraccio amoroso all’abbraccio funesto.