Seduta sullo shinkansen Kyoto-Tokyo ripenso ad un affermazione di Bukowski: “La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga neanche il biglietto”, e mai come in questo viaggio nipponico ho avvertito tutta la verità di questa frase. Templi, Buddha giganti, pagode, pachinko, ryokan, sky tower e risaie, nulla di tutto ciò è vagamente paragonabile alla meraviglia suscitata dalla popolazione giapponese e dalla loro cultura.
Come i ciliegi, vanto del loro paese, cosi sono i giapponesi: sobri e gentili in ogni loro contatto, persone lievi dalle radici pesanti e fortemente ancorati ad esse. E se a Tokyo, che per riassumerla in un’immagine potremmo paragonarla ad una stanza con le luci sempre accese, pensate di ritrovare persone più simili ai suoi grattacieli futuristici allora anche voi siete stati ingannati dalla stessa menzogna che aveva fuorviato me.
Trascinati dal vento della metro, stanchi si appoggiano come petali ovunque e riposano, sopraffatti dagli orari serrati, dalle luci sempre accese e dai rumori assordanti, prodotti non dalle macchine, ma da milioni di persone che congestionano la città più dell’umidità e del caldo. Futuristica la città, ma non i suoi abitanti che ancora non parlano inglese, non accettano gli stranieri in tutti i locali e si mostrano notevolmente preoccupati se fermati per strada, i giapponesi sembra che si siano fermati a qualche decina di anni fa mentre la loro città è balzata in avanti di cinquanta anni rispetto alle altre.
E se magari la loro singolare educazione e gentilezza li può far sembrare naïve agli occhi smaliziati di europei e americani, la loro performance a tavola fa strabuzzare gli occhi anche ai più tolleranti. Ignari o non curanti del bon ton praticato in occidente, ogni rumore è concesso e se ci scappa un pisolino tra una portata e l’altra va bene, la tranquillità degli altri commensali non viene minimamente turbata da quella “assenza”.
E la percezione dell’assenza è quello che mi ha maggiormente colpito nelle persone. Assenza di qualcosa che forse a noi dalla cultura europea non è dato capire; la lentezza nelle persone e nei loro gesti ovattati, la mancanza di contatto, la ricerca di canoni estetici eterei e riservati, persone e luoghi permeati di silenzi e luci che qui, soprattutto in Italia, non se ne vedono e non si capiscono.
È come in Memorie di una geisha quando Sayuri dice: “Al tempio c’è una poesia intitolata “la mancanza”, incisa nella pietra. Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere la mancanza, solo avvertirla.”
Si avverte quest’assenza che è presente, ha il suo peso e un suo spessore, nostalgica e solenne come le lunghe descrizioni delle luci nei libri di Murakami, il Giappone è una luce smorzata e incorporea che ti entra dentro e ti lascia triste e incantata, come una canzone dei Mogwai.
A cura di Martina Cotena.