Da diversi chilometri di distanza dal Parco delle Cascine si intravedono innumerevoli gruppi di ragazze e ragazzi che a piedi si dirigono verso il luogo del concerto. Si preannuncia già qualcosa d’importante.
I Radiohead avevano già suonato nel capoluogo toscano nel 2003: a quei tempi mi stavo devastando il cervello con Ok Computer e con l’allora appena uscito Hail To The Thief, ma ero troppo piccolo e solo per andarci. Nel 2008, invece, avevo la maturità. Finalmente, arriva il 2012 ed ecco di nuovo i Radiohead a un tiro di schioppo da casa. Questa volta non me li posso perdere per nessuna ragione al mondo.
L’attesa è stata lunga, lunghissima, prolungata purtroppo dal tragico incidente canadese, che ha fatto slittare le date italiane dai primi di luglio alla fine di settembre, quasi da farmi dimenticare di avere il biglietto lì da qualche parte. Ma con l’avvicinarsi del ventitre, è maturata in me la consapevolezza del tutto: pochi giorni, e li avrei visti. Avrei visto uno dei miei gruppi preferiti dopo quasi dieci anni di attesa. Le aspettative, altissime per i più svariati e ovvi motivi, a cominciare dai commenti entusiasti riguardo alla data capitolina, avrebbero potuto davvero essere deluse con facilità. Ma non è andata proprio così.
Arriviamo al Parco delle Cascine, luogo rinomato per il proliferare di interessanti e peccaminose signorine da una certa ora in poi; per non parlare dell’assidua presenza del buon Carlo Monni, in condizioni spesso e volentieri discutibili, sospeso tra alcolismo e poesia maledetta. Giunti in loco, accompagnati da un caldo «sopra la media stagionale», come direbbe il migliore dei Bernacca, e da un’umidità da Val Padana, ci si rende conto che si è già formata un’immensa folla di gente e che toccherà vedere il tutto abbastanza da lontano.
Dopo un po’ d’attesa comincia a suonare Caribou, che fa alla grande il suo lavoro di musicista elettronico, ma non è esattamente lui che vorresti sentire alle otto di sera: è uno che forse si presta meglio ad altri contesti e ascolti, magari a tarda notte. Annoia un po’, pur rimanendo un degno apripista per l’ensemble di Oxford.
I Radiohead stanno dunque per arrivare: oltre trentamila persone aspettano trepidanti Thom Yorke e soci. E arrivano, sulle note di “Bloom”, direttamente dal loro ultimo lavoro The King Of Limbs, che ancora continua a dividere il pubblico. L’apertura è all’insegna di sonorità elettroniche, improntata sulle ritmiche: sul palco, infatti, suonano tre differenti strumenti a percussione. Si torna di poco indietro nel tempo con l’incedere incalzante di “There There”, uno dei migliori episodi di Hail To The Thief: le chitarre guadagnano un po’ di peso e la voce di Yorke acquisisce ancora più forza dopo una partenza lievemente sottotono. L’accoppiata “15 Step” – “Weird Fishes / Arpeggi” è vincente, e sottolinea l’imporsi del repertorio più recente in scaletta. Come un fulmine a ciel sereno, arriva però “Kid A”, in una versione aggiornata ma non snaturata.
Il pubblico è caldissimo e il gruppo è ormai proiettato verso un concerto praticamente perfetto. Sul palco, assieme a Thom, Colin, Jonny, Ed, Phil e il batterista aggiunto Clive Deamer (Portishead), si muovono vari schermi fissi (che spesso mostrano le figure dei singoli componenti) più altri mobili e rotanti, che creano suggestivi effetti visivi, allineati alla perfezione con le trame sonore del concerto.
I Radiohead continuano a pescare dal materiale più prossimo ai nostri giorni: è la volta di “Staircase”, poi di “Morning Mr Magpie” e “Separator”, dove le suggestioni elettroniche e più percussive continuano a essere protagoniste. Bellissima sorpresa ascoltare, tratta da Amnesiac, la splendida “You And Whose Army”, per poi proseguire con la carezzevole “Nude”. Interessante novità, invece, “Identikit”, seguita dal singolo apripista di King Of Limbs “Lotus Flower”, che incita non pochi spettatori a imitare le danze bizzarre alle quali il frontman ci ha abituati.
Visto l’andazzo, e considerata l’immensa fama che la precede, “Karma Police”, che nel contesto dell’esibizione poteva sembrare più che altro un contentino per vecchi fan, è piuttosto inaspettata: scatena immediati entusiasmi e un telefonato ma sopportabile effetto karaoke, al quale devo ammettere d’aver preso parte con non poco trasporto. “Feral” può esser percepita come un piccolo intermezzo: non tanto perché rappresenti un episodio minore, quanto perché viene eseguita tra “Karma Police” e un’altra canzone che sin dall’attacco fa esplodere di gioia il pubblico. Parlo di “Idioteque”, per la quale si possono spendere le medesime parole impiegate per “Kid A”: il tempo non l’ha scalfita più di tanto, anche perché i ragazzi fanno di tutto, riuscendoci, per integrarla a tutti gli effetti alla loro forma stilistica attuale.
I Radiohead se ne vanno momentaneamente. Il solito teatrino del bis. Rientrano in scena con un ripescaggio d’annata, ossia l’incipit di Ok Computer, “Airbag”. Si fa di tutto per non far sembrare fuori contesto il nucleo decisamente “pop rock” del pezzo, così com’è stato fatto per la più celebre “Karma Police”, e l’intento va a buon fine. Sulla sublime “How To Disappear Completely” a parlare sono soprattutto le lacrime, le note che ti arrivano al cuore e te lo trafiggono, come la prima volta che l’hai ascoltata sul disco.
«This is for Berlusconi», dice Yorke prima di intonare l’ottima “The Daily Mail”, per poi imbracciare la chitarra e attaccare con l’incisivo rock di “Bodysnatchers”. “Planet Telex” è invece l’unica, illustre ed applauditissima rappresentante di “The Bends”, e chiude il primo bis.
La seconda ripresa è aperta da “Give Up The Ghost” e poi dalle timbriche dilatate di “Reckoner”.
A questo punto, Thom canta una sua breve versione di “The One I Love” dei R.E.M.. Il 21 settembre del 2011 il gruppo di Athens si scioglieva, e questo minuto di musica regalatoci dai Radiohead prima del gran finale è una meravigliosa dichiarazione d’amore, che vuole ricordare come tutto sia partito da lì, e come Stipe e compagnia rappresentino ancora oggi per loro un essenziale punto di riferimento. “The One I Love” anticipa “Everything In Its Right Place”, uno dei migliori incipit per un album e, al contempo, la miglior conclusione possibile per un grande concerto.
Difficile trovare un neo al passaggio fiorentino dei Radiohead: acustica fantastica, come di rado capita di sentire all’aperto, suoni perfetti e gruppo in grandissima forma, che si muove su una scaletta atipica ma non troppo, sospesa tra passato e presente. E poi la bellezza visiva del tutto rappresenta la ciliegina sulla torta, quel tocco di classe che trasforma un concerto eccezionale in uno spettacolo altrettanto indovinato.
In tutta sincerità, non si poteva chiedere di più.
Un sincero ringraziamento va a Walter per i bellissimi scatti.
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