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Flavia Balsamo: “Ritratti in lavorazione” di Giuseppe Vetromile
Creato il 24 aprile 2012 da EdizionidelcalatinoÈ stato proprio il sottotitolo “Poesie del disincanto e del salario” a regalarmi il primo spunto di riflessione. Mi sono chiesta, infatti, se l’associazione delle parole disincanto e salario recasse il segno dell’appartenenza al medesimo contesto, oppure se individuasse momenti differenti del percorso di vita dell’autore. Il disincanto potrebbe certamente apparire come elemento chiave del mondo operaio, dove ciò che conta è il salario e tutto il resto viene tralasciato come quel superfluo per il quale non si ha tempo, quell’infanzia che non trova più posto all’interno dell’ambiente meccanicistico e deterministico del lavoro. Eppure, c’è da stupirsi perché, proprio in quel mondo, nei ritratti iniziali che Vetromile ci offre, si scorge la più profonda e intima esigenza di “fiaba”, di sogno, di quel mondo a metà strada tra la terra e il cielo. Non è quindi un caso che la raccolta inizi con questi versi: “Dimentica, anima mia, il solito giro della spesa: noi fantasmi abbiamo nelle tasche altro pane, altro sale, le cose più buone dell’antico celeste paese”. Così come non può essere fortuito il ricorrere proprio nella prima parte della raccolta di parole quali fiaba, sogno, romanzo, ecc. (“lontano dalle favole lavo lavandini e gabinetti”; “per capire ciò ch’è negato alle piccole donne / con grandi occhi d’amore e cuore di romanzo”). È evidente la volontà di rendere manifesto quello scarto di umanità, quel mancare di qualcosa che pure dovrebbe contraddistinguere l’essere umano: “Giusto l’ora d’assaporare il sole al mattino / e poi sguaiarsi sotto il barbacane così / come una pezza di carne usata qualsiasi”. L’uomo che si lascia alle spalle la luna e le stesse, l’uomo vittima di un’alienazione da lavoro, è lo stesso che “la sera piange e un poco sogna”, l’impiegato “insugherito e svalutato” che non rinuncia ai suoi sogni e “consuma preghiere alla ringhiera / per il suo ultimo resto di illusioni”. Nonostante, quindi, il lavoro consumi tutte le energie e il tempo (“segretaria che il tempo non hai per amare”), sussiste, anche soltanto inconsciamente, una volontà di nutrirsi di altro, di qualcosa che “non era boccone di terra, particella grassa”, qualcosa che viene identificato dall’autore come lieve (“ma certo qualcosa prendevi / dal vento e dai sussurri dell’aria, dalle stelle persino, / come viatico ai tuoi giorni stretti”) proprio perché deve distaccarsi dalla terra, nel suo simboleggiare la materialità, la pesantezza di una vita stretta dalla fatica, dal lavorare per vivere. In questo contesto si inserisce la preghiera come grido di ricerca di Chi per natura è in alto, è spirituale, è cielo, e parla attraverso le stelle, e deve quindi riscattare l’uomo dalla vacuità di una vita spesa soltanto nella routine dettata dai bisogni fisici: “O Signore / non darmi il nulla quotidiano: la mia vita / è questa pezza di tuta grassa / da indossare sopra i sogni, le speranze”. Esistono altri bisogni, inerenti all’esserci dell’uomo, sogni che riflettono proprio quel cielo, come “illusioni capovolte” specchiate nel mare; sogni che dettano il tempo che senza loro “passava ma non passava poiché / era fermo ogni sogno, ogni viaggio ogni amore”. Ricordandoci filosoficamente che essere uomo è essere temporalità, è importante costatare come questi versi ci inseriscano in una dimensione che non dimentica tutto quanto riguarda l’uomo, installandosi in uno sguardo sospeso tra il cielo e la terra, poiché di entrambe le nature si vuole connotare l’esistenza umana. Non è vero tempo, non è vera vita quindi, se l’uomo dimentica una delle due nature (il cielo, le stelle, i sogni e desideri), e così facendo non vive pienamente nemmeno l’altra. Questo, a mio parere, il significato più profondo dell’opera in questione espresso nei versi: “Io cerco altre cose / non ragiono di sola materia”.
Non soltanto questo però, come vediamo analizzando la seconda parte della raccolta, dove, il raggiungimento di quel cielo (l’abbandono del lavoro nella fabbrica, e quindi l’agognato spazio di poesia) innesta l’autore in un problema ulteriore: quale sogno resta quando hai raggiunto il sogno? (“Hai creato una favola e la vivi qui in pantofole / nessuno ha distratto la tua dimora di nuvole”). Questa la parte denominata “Poesie del disincanto”. Nel compiersi della favola, l’accidia potrebbe prendere il sopravvento, dimenticando l’essere costantemente in tensione dell’uomo. Sartre diceva che essere è giocare a essere, un continuo progettarsi oltre la situazione, trascendendola nel valore. Qui, in uno spazio poetico, ho rivisto la medesima riflessione filosofica, trasfigurata però nella bellezza dei versi: “Non andare a gettarti nell’accidia incatenante del laggiù indicativo, / dove s’imprimono i numeri sulle pagine / d’una vita a perdere”. La consapevolezza di quell’oltre che solo può innalzare la vita al di là della mera datità (l’essere gettato) non è però essa stessa compiuta, approdo facile, poiché in tutto rispecchia l’essere in divenire del progetto autentico del vivere. Trovano quindi spazio dubbi, incertezze, dolore, e le stesse tentazioni prima esorcizzate: “ma non entrano più le albe ed i mattini rosati […] non c’entrano più / le ore del tempo sghimbescio, accantonate / in un grumo di sogni a capoletto [...] ho un termine all’orizzonte che mi nega / ogni prosieguo, è divisa la luce dal buio, / e la notte sarà come sarà, colma di silenzi / e di immobili sospiri… non entrerà dunque / nemmeno un atomo di cuore: tutto / è fermo ormai nell’attesa che si svuoti / il pozzo dei castighi e dei dolori, domani, / per riscrivere speranze ed illusioni, altre / note di colore, su un taccuino ancora intonso / comparso così, all’improvviso, in un angolo / di luce di un altro mattino fortunoso!”. Il domani è un giorno fortunato che sfida la morte: “la morte è qui / – comunque- aggrappata a me senza pretese / di vedermi riciclato in un atomo d’azoto, / quantunque turbinoso, avventuroso… Ed io, / mia cara, sarò guardingo nel chiedere la vita: / un passo dopo l’altro, in silenzio, attento / a non dissolvermi nel cielo”. Insorge quindi un nuovo nucleo tematico, quello contraddistinto dall’incedere del tempo, del nulla che si staglia interrogativo all’orizzonte rendendo fragile ogni scelta, ogni giorno. La “morte è morte e più non si dica oltre” e la vita, attraverso questa contrazione del futuro, viene riscritta come tempo d’attesa, come aspettativa di rinascita mediante la morte stessa “la vita è quel fantasma in attesa d’essere evocato”. Tutte le aspettative, i sogni, i desideri crollano in un presente in cui nessuno più “sa leggere i colori del cielo né le onde del mare”, “abbiamo perso il coro degli angeli”, e “per noi non ci sarà più / risposta dal cuore prima illuminata; / né ai sogni, né ai paradisi fatti di tremor d’amore / e di squarci di speranza”. Nella prospettiva finale dell’autore sembra quindi dissolversi ogni cielo, ogni al di là che dona significato al presente, nell’emergere di un oltre che eclissa tutto il resto, è la morte. Sembra… perché, in realtà, come attesta il colpo di coda finale, nel poeta fermentano altre volontà: “Ma tu insisti! Ancora vuoi portarti addosso / questa pietra di facezie, bagaglio di chincaglie. / Ancora risali la china del mistero con un forte / grido d’arrembaggio nella gola, come / il vecchio corsaro della storia favolosa!...”. Nonostante la consapevolezza, nonostante il dialogo cosciente e, oserei, duro del poeta con la morte e il nulla, la svalutazione cinica di quelle “facezie” e “chincaglie” non riesce a smorzare il grido finale che solo può rendere onore a una vita come perenne movimento di ogni atomo (quello d’azoto, quello del cuore, ecc), questo “sciamarsi di molecole sfatte, / l’agitarsi di tutti i colori pazzi nell’incavo degli occhi”: Io cerco altre cose, l'atto di coraggio del poeta. Così, ha trovato risposta la mia domanda iniziale: il disincanto è tutto quanto interviene con prepotenza quando la maturità avvera o rende vani i sogni, quando la favola è resa libera dal suo compito di ammorbidire la quotidianità. Il disincanto si aggira con più forza proprio in quel mondo che non sembra suo: non nello spazio lavorativo bensì in quello domestico onirico, delle pantofole e dell’albeggiare del sole sul davanzale. Lì, l’autore lo aspetta e l’affronta con tutta la forza del pensiero poetico che è autocoscienza e contemporaneamente superamento di questa.
Flavia Balsamo
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