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Se c’è un giorno duro da affrontare per definizione è il lunedì, già maledetto da un Vasco d’annata sul finire di un album atomico come “C’è chi dice no”, anno domini 1987, quando il Blasco si poteva ancora definire rocker irriverente.
Rockers e irriverenti lo sono di certo i Flyzone, e chissà, forse hanno pensato anche al lunedì ed alle espressioni assenti e ancora addormentate che – immancabili – si incrociano per strada e in metropolitana, per il titolo del loro album di debutto, “Hard day’s morning“, perché a volte tutto quello che serve è la carica giusta, una scintilla, una scossa che volenti o nolenti spazzi via la passività e faccia muovere i nervi, un po’ come il lunedì mattina, quando il suono della sveglia arriva sempre troppo presto e il cervello resta ancora a letto, fin quando si accende la radio e parte la musica giusta. La musica giusta in questo caso è quella della formazione romana, capitanata dal chitarrista e fondatore Danilo Garcia Di Meo, e state pur certi che funziona meglio di un litro di caffè nero bollente…
La band nasce nel 2009 sotto il nome di InOut, espressione maliziosa presa in prestito da “Arancia meccanica“, capolavoro del Maestro Stanley Kubrick che rappresenta un supercult per il gruppo; successivamente il nome viene cambiato in Flyzone, ribellione lessicale alla No-fly zone, l’area di interdizione al volo spesso definita in territori demilitarizzati e che è a tutti gli effetti zona franca per quel che riguarda gli attacchi aerei. I Flyzone invece di interdizione e di zone chiuse proprio non vogliono sentir parlare, perchè, come loro stessi tengono a precisare, “La nostra caratteristica nel suono quanto nei testi è l’irriverenza e in questo non possiamo permetterci limiti: non conosciamo zone di non attacco. Vogliamo e possiamo muoverci in ogni direzione”. Una presentazione, questa, che promette fuoco e fiamme dal quartetto capitolino, e la ricetta del gruppo non può che essere quella del rock arrogante, un po’ punk e un po’ grunge, un po’ rock-blues e un po’ alternative (definizione che ormai lascia il tempo che trova visto quanto il concetto di alternative si sia allargato negli ultimi anni), rock sporco insomma, che sa di garage di periferia trasformati in sale prove, di fatica, passione e sudore, tutti aspetti che in “Hard day’s morning” risultano palpabili.
Dal 2009 il sound del gruppo si va formando mescolandosi con le influenze dei componenti di una line-up che cambia diverse volte, fin quando nel 2011 iniziano le registrazioni dell’album di esordio, pubblicato nel febbraio di quest’anno; l’album è completamente autoprodotto, ormai unica soluzione per chi voglia fare musica senza sottostare a logiche commerciali e senza dover abbassare i pantaloni di fronte a qualche Re Mida del mercato discografico, e ciò non può che denotare le motivazioni forti di chi non ha paura di affrontare la gavetta per portare in giro la propria musica.
Il risultato è un concentrato di nevrosi metropolitane, un ruggito contro il passivismo e la narcotizzante quotidianità che dilagano, soprattutto in una grande e frenetica città come Roma. C’è una rabbia (poco) repressa nell’atteggiamento della band, che lungo questi 8 esplosivi brani spara watt a profusione e urla la propria insoddisfazione: i quattro imbracciano gli strumenti, alzano il volume sbraitando “Sveglia!” al mondo che sta loro intorno e mettono in fila 8 pezzi che spaziano tra generi e decadi diverse: si va dal rock e il punk più secchi, molto seventies anche se “sporcati” con derive moderne che li trascinano verso il grunge, fino a tracce noisy e deviazioni metalliche affascinanti, passando per qualche spolverata sintetica appena accennata.
Il suono del disco ha il piglio della musica dal vivo e forse anche per questo alcuni aspetti risultano ancora grezzi, ma l’energia e la carica elettrica che i Flyzone riescono a trasmettere spazzano via l’ombra di piccole imperfezioni, a favore di un ritmo incalzante che guadagna la scena alla prima nota di “Katrina” e non la lascia fino all’ultima di “A clockwork orange”, regalando poco più di mezz’ora di adrenalina in soluzione audio. E’ questo – inutile girarci attorno – che prende il sopravvento durante l’ascolto dell’album, perchè i ragazzi ci sanno davvero fare con gli strumenti e la voce di Iurisci è efficace sia su ritmi tirati e toni alti sia sui vocalizzi, e poi con i ritmi trascinanti di brani come “Wake up”, “Black blood” o “Four” il piede batte il tempo da solo e stare fermi è impossibile….
“Hard day’s morning” è un album rock nel profondo, suonato con tanta enfasi e tanto sudore che c’è da chiedersi se Di Meo e soci siano riusciti a terminare le registrazioni sulle loro stesse gambe, un album elettrico in cui forse i testi subiscono la predominanza di una musica potente e sferzante, ma poco importa in fondo, perché il disco è uno di quelli atomici, di quelli da piazzare nel lettore la mattina quando si sono fatte le ore piccole la sera, di quelli che vi fanno agitare ed urlare in macchina mentre siete in coda in autostrada, di quelli che – se proprio gli si vuol trovare un vero difetto – non potete ascoltare al volume che meritano se i vicini sono in casa…
Voto: 7
Tracklist
1. Katrina
2. The qube
3. Black blood
4. Wake up
5. In my opinion
6. While the city’s asleep
7. Four
8. A clockwork orange
Recensione pubblicata su Oubliette Magazine
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