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Il film di Lee Jones parte in maniera volutamente scolastica, con un'aderenza verso le convenzioni dettate dai grandi maestri del filone che è evidentemente sincera devozione: movimenti di macchina lineari e fotografia (di Rodrigo Prieto) limpida, scevra da inutili compiacimenti estetici così come predicava John Ford; dialoghi essenziali, a tratti persino didascalici, così come la caratterizzazione di tutti i personaggi in campo, secondo le regole di Howard Hawks. E poi l'esatta esemplificazione dei topoi: l’impiccagione, la fame, gli indiani e il duello con le pistole. Tutto molto bello. E prevedibile. Ma quando ci sembra di aver capito dove andremo a parare, la pellicola ci sorprende torcendosi con violenza inaspettata, tramutando il tragitto on the road in un’epopea di ritorno in cui non c’è più la frontiera come baluardo della civilizzazione, perché ad esplodere, in The Homesman, è la psiche di chi quel viaggio lo ha già intrapreso, e dopo averne pagato il terribile fio non ha altra possibilità che rinculare e rimettersi in marcia.
In questo senso lo sguardo del regista sa insinuarsi nelle pieghe del genere rovesciandone gli standard, srotolando lungo le dinamiche dell'azione il punto di vista dei perdenti. Non a caso a ricondurre le povere dementi al sicuro sono un'austera zitella che nessuno vuole impalare e George Briggs (interpretato dallo stesso Jones), un vecchio imbroglione impossessatosi abusivamente di uno dei poderi del villaggio di partenza. Una coppia che imparerà a conoscersi, forse anche a stimarsi e desiderarsi, ma che non risulterà immune al contagio della pazzia, con conseguenze disastrose. Jones è formidabile nell'allestire una corretta epica dei grandi spazi e a ritrarre senza fronzoli la cruda spietatezza della vita dei pionieri, ma ciò che gli riesce meglio (qui come nel precedente Le tre sepolture) è sicuramente inoculare una prospettiva "politica" nello spettatore, disseminando la sua storia di brevi sottintesi ai peccati che soggiacciono all'edificazione della Nazione: l'espropriazione delle terre indiane, la schiavitù dei neri, l'avidità degli imprenditori che hanno "inurbato" il West solo per depredarlo: facce deformi della medesima medaglia cui si deve la sottrazione di misure irripagabili della dignità umana.
E non è tutto. A poco più di metà del film [mezzo spoiler, attenzio'], quasi a tradimento, fa uscire di scena uno dei personaggi fondamentali. Lavorando di fino sulla traccia dell’omonimo libro di Glendon Swarthout, il cineasta e attore sessantasettenne dimostra così di avere ancora voglia di dire qualcosa di non inflazionato all’interno di un genere di cui sembra - apparentemente - si sia detto tutto. La sofferta, plausibile maturazione che compie il suo personaggio rimasto solo è un notevole surplus all'interno di un castello narrativo molto ben congegnato, capace di non annoiare pur non offrendo che un paio di solide sparatorie (da brivido però, la scena dell'incendio all'hotel con un James Spader impomatato e figlio di puttana). Cameo innocuo della Streep, ormai sorta di Madre Battesimale del cinema d'autore d'oltreoceano che conta. Ben vengano insomma film come The Homesman, buon vecchio cinema stagionato fatto da chi guarda alla sostanza senza lasciarsi irretire da facili contaminazioni pop-moderniste.
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