In ambito musicale, già dal XVI secolo veniva chiamata follia una composizione strumentale di origine portoghese, sviluppatasi internazionalmente nel periodo barocco, spesso in forma di danza e caratterizzata dalla convivenza di toni malinconici e vivaci. Il melodramma, fin dagli esordi, ha fatto ricorso al tema della follia, cogliendone il potenziale teatrale, anche se in modo più didascalico e stereotipato del teatro puro. Nel 1641, appena pochi anni dopo la nascita del primo teatro pubblico veneziano, Francesco Sacrati mise in scena La finta pazza su libretto di Giulio Strozzi, avente per soggetto la simulata follia di Deidamia architettata per indurre l’amato Achille a rimandare la partenza per Troia (come nell’episodio di Ulisse, la follia simulata in antitesi alla guerra). Per la verità, il tema della follia avrebbe già dovuto fare la sua comparsa nel melodramma sul finire degli anni venti del seicento, quando lo stesso librettista scrisse per Monteverdi La finta pazza Licori, di cui non ci sono pervenuti né libretto né spartito, forse a causa del saccheggio di Mantova del 1630. In seguito, fu soprattutto la pazzia dell’Orlando furioso di Ariosto, esemplare nel condensare l’aspetto malinconico e quello stravagante, a ispirare librettisti e compositori, fino ai lavori di Vivaldi e Handel. I tratti comuni della follia nel melodramma del seicento e settecento sono rappresentati dal rinsavimento finale, dallo sfruttamento delle stravaganze comportamentali per stemperare la tensione del dramma, dalla rappresentazione delle altalene umorali del/la folle facendo ricorso al funambolismo virtuosistico dei cantanti. A chiudere questo periodo, senza dimenticare il delirio collettivo mozartiano delle Nozze (non a caso mantenendo il titolo alternativo La folle giornata, come dall’originale teatrale di Beaumarchais), ci fu Nina, o sia La pazza per amore, composta da Giovanni Paisiello nel 1789 su libretto di Giovanni Battista Lorenzi, in cui il rinsavimento canonico dovuto al realizzarsi dell’amore contrastato è accompagnato da un’inedita attenzione psicologica al tema della follia, preannuncio della trattazione data dal romanticismo e dal realismo nell’ottocento.
Col romanticismo, la follia venne vista in contrapposizione al grigiore della nascente borghesia, simbolo di estro e visionarietà, col conseguente abbandono della descrizione caricaturale che aveva caratterizzato i secoli precedenti. Furono soprattutto due maestri italiani, Bellini e Donizetti, a superare i cliché intrattenitivi del barocco e del classicismo, per far assumere ai personaggi folli uno spessore psicologico sempre più strutturato. Il catanese si cimentò nella pazzia per amore, con rinsavimento finale col personaggio di Elvira ne I Puritani e, affine alla follia, con le azioni in stato di incoscienza di Amina ne La sonnambula. Anche Donizetti si cimentò con la follia per amore rinsavita, ne la Linda di Chamonix del 1842, ma già sette anni prima aveva dato alle scene quella che è per antonomasia l’Opera della follia, la Lucia di Lammermoor, attinta dallo stesso romanzo di Walter Scott da cui nel 1819 Rossini aveva tratto La donna del lago. Nella Lucia, l’amore contrastato non ha soluzione e la folle non rinsavisce, ma uccide e muore. L’altalena degli umori diventa terreno privilegiato per indagare tutte le sfumature dell’animo oppresso; la follia si umanizza, perde ogni traccia di caricaturalità; la follia non è più altro, ma parte della vita. Per tutto l’ottocento, fino alla fine della sua epoca attiva, l’Opera ha continuato ad avere nella follia un topos privilegiato per dispiegare tutta la sua potenzialità di rappresentare le passioni umane nella purezza della loro essenza. Se Verdi, sulle tracce di Shakespeare, ha indagato a lungo i deliri delle passioni, pur senza mai dare centralità alla follia vera e propria, non sono mancate scene di pazzia patologica, come nell’Ofelia dell’Amleto di Ambroise Thomas e nel Don Chisciotte (personaggio frequentato dal melodramma fin dal barocco) di Massenet.