Continua da For the Win, scena 6
Questa scena è dedicata a Books of Wonder, di New York, la più antica ed ampia libreria per ragazzi a Manhattan. Si trova a soli pochi isolati di distanza dagli uffici della Tor Books nel Flatiron Building, e ogni volta che vado lì per incontrarmi con la gente della Tor, vado a fare un salto alla Books of Wonder per esaminare la loro offerta di libri per ragazzi nuovi, usati e rari. Sono un grande collezionista di edizioni rare di Alice nel Paese delle Meraviglie, e Book of Wonders non manca mai di entusiasmarmi con qualche splendida edizione limitata di Alice. Alla Books of Wonder organizzano un sacco di eventi per ragazzi e c’è una delle atmosfere più invitanti che abbia mai sperimentato in una libreria.
Books of Wonder: 18 West 18th St, New York, NY 10011 USA +1 212 989 3270
Mala era nel mondo di gioco con un piccolo party raidante, solo pochi della sua armata. Era tardi — era passata la mezzanotte — e la signora dibyendu aveva lasciato la gestione dell’Internet Café al suo nipote idiota. In questi giorni, l’Internet Café rimaneva aperto ogni volta che Mala e la sua armata volevano usarlo, fosse giorno oppure notte, e c’erano sempre dei soldati che gareggiavano per l’onore di scortare Generale Robotwallah a casa una volta finito. Ammaji… Ammaji aveva un nuovo bel appartamento, con due intere stanze, e una di queste era solo per Ammaji, sua per dormirci senza i rumori e il rigirarsi dei due figli. C’erano posti a Dharavi dove dieci o quindici persone avrebbero volentieri condiviso una stanza di quelle dimensioni, dormendo sui propri cappotti… o l’uno sull’altro. Ammaji aveva un materasso, portato da lei da un forte giovane dal bazar di Chor, trasportandolo con sé sul tetto del treno della linea marittima nel caldo dell’ora di punta.
Ammaji non si lamentava quando Mala giocava fin dopo mezzanotte.
“Ce ne sono altri, laggiù”, disse Sushant. Aveva due anni più di lei, era il più alto di tutti loro, con i capelli corti e un sorriso folle che le faceva venire in mente la faccia di un cane a cui si sia accarezzata la pancia fino a portarlo all’estasi.
Ed eccoli qui, tre mecha in un triangolo, colpendo metodicamente gli zombie sulla testa, spargendo i loro cervelli marci e lasciandoli cadere in pile sempre più grandi. Alla fine, in gioco avrebbe mandato dei ghoul per trascinare via i corpi, ma per ora, erano impilati fino ad arrivare al torso dei mecha.
“Li ho sotto tiro”, disse Yasmin, con i mirini che si bloccavano sul bersaglio. Questo era un nuovo genere di missione per loro: spazzare via questi piccoli trii di mecha che grindavano[1] zombie. Il signor Banerjee aveva dato loro questo compito una volta che i combattenti più aggressivi erano stati praticamente sterminati dalla sua armata. Secondo il signor Banerjee, questi gruppi di tre mecha erano sotto il controllo di un solo giocatore, qualcuno che veniva pagato per livellare[1] il mecha di base fino al livello 4 o 5, per poi venderli all’asta a giocatori ricchi. Sempre in gruppi di tre, sempre grindando zombie, sempre in questa parte del mondo, come una piaga.
“Fuoco”, disse lei, e l’arma a impulsi sparò anelli di forza concentrici nell’aria. I nemici si paralizzarono, i loro sistemi centrali distrutti e, mentre Mala guardava, gli zombie iniziarono a sciamare sopra i loro mecha, ricoprendoli, lavorando senza pausa su di loro, finché non riuscirono a trovare il modo di entrare. Una nebbia rossa si sparse nell’aria mentre smembravano i piloti.
“Ben fatto”, disse lei, stiracchiandosi la schiena, leccando le ultime gocce di una coppa di chai che si era ormai raffreddato al suo lato. Il nipote idiota della signora Dibyendu era all’ingesso dell’Internet Café, a piedi nudi, sputando betel sulla strada il cui odore dolciastro arrivava fino a lei. Stava per essere assalita dal sonno, quindi era il momento di andare. Si girò per dirlo al suo esercito, quando le sue cuffie si riempirono del tuonare di mecha in arrivo, di un sacco di mecha in arrivo.
Rimise il didietro sulla sedia e si girò, le dita che volavano sulla tastiera, gli occhi fissi sullo schermo. I mecha nemici stavano arrivando in una configurazione megamecha, quindici — no, venti — di loro uniti insieme a formare un robot così grande che lei sembrava un moscerino al confronto.
“A me!”, gridò, “In formazione!”. I suoi soldati tornarono alle loro tastiere, il suo esercitò iniziò la propria sequenza megamecha, ma ci voleva troppo e non erano abbastanza e, nonostante combatterono coraggiosamente, il gigantesco nemico li fece a pezzi, sollevando ogni robot da guerra, guardando al suo interno mentre strappava l’armatura e lasciava cadere il pilota che si contorceva in mezzo alla marea di zombie che si stava innalzando ai suoi piedi. Troppo tardi, Mala ricordò la sua strategia, ricordò come era stato quando lei aveva sempre comandato la forza più debole, la posizione difensiva che avrebbe dovuto far assumere al suo esercito nel momento stesso in cui aveva visto quanto era in inferiorità numerica.
Troppo tardi. Un istante dopo, il suo mecha era stato afferrato dal nemico, sollevato fino alla sua faccia, e mentre veniva avvicinato la sua console cambiò ed un leggero clacson suonò: il robot stava cercando di infiltrare il suo sistema di comando, di interfacciarsi con esso, di pwnarlo[1]. Questo era un altro gioco all’interno del gioco, il gioco hacka-e-sii-hackato [come in "hacking", NdT], e lei era molto brava in questo gioco. Si trattava di risolvere una serie di enigmi logici, risolverli più velocemente del nemico, e lei cliccò e digitò mentre cercava il modo di costruire un ponte con dei blocchi di dimensione irregolare, mentre cercava il modo di aprire una serratura i cui perni dovevano venire cliccati in una certa maniera per far sì che il meccanismo funzionasse, mentre cercava…
Non era stata abbastanza veloce. Il suo esercito si raccolse intorno alla sua console ormai bloccata, il nemico ormai all’interno del suo mecha, controllandolo dal bootloader al lanciafiamme.
“Ciao”, disse una voce nelle sue cuffie. Questo era qualcosa che potevi fare quando controllavi l’armatura di un altro giocatore: potevi prendere il controllo delle sue comunicazioni. Lei pensò di togliersi le cuffie e passare agli altoparlanti così che il suo esercito potesse sentire a sua volta, ma una qualche premonizione la fermò. Questo nemico si era dato da fare per parlare a lei, in persona, così avrebbe ascoltato che cosa aveva da dire.
“Il mio nome è Sorellona Nor”, disse lei, ed era una lei, una voce di donna, no, una voce di ragazza… forse qualcosa a metà strada fra le due. Il suo hindi aveva uno strano accento, come gli attori cinesi che aveva visto al cinema. “E’ stato un piacere combattere contro di te. La tua gilda è stata molto brava. Ovviamente, noi siamo stati migliori.” Mala udì delle voci, dal suono stridulo, esultare e realizzò che c’erano dozzine di nemici sul canale di chat, tutti quanti in ascolto. Ciò che aveva scambiato per rumore statico nel canale era, in effetti, dozzine di nemici, da qualche parte nel mondo, che respiravano nei loro microfoni mentre la donna parlava.
“Siete davvero dei buoni giocatori”, disse Mala, sussurrando perché solo il microfono potesse sentire.
“Non sono solo una giocatrice, né lo sei tu, mia cara”. C’era qualcosa da sorella in quella voce, neanche un briciolo di quella gongolante competitività che Mala aveva provato nei confronti dei giocatori che aveva battuto in passato. Nonostante tutto, Mala si ritrovò a sorridere un poco. Mosse il mento da lato a lato — Oh, sei una intelligente, continua — e i suoi soldati, intorno a lei, fecero lo stesso gesto.
“So perché combatti. Pensi che sia un lavoro onesto, ma ti sei mai fermata a considerare il perché qualcuno ti dovrebbe pagare per attaccare altri lavoratori nel gioco?”
Mala fece andare via il proprio esercito, indicando la porta. Quando fu sola, disse “Perché rovinano il gioco per gli altri giocatori. Interferiscono”.
Il gigantesco mecha scosse la testa lentamente. “Sei davvero così cieca? Pensi che il gruppo che ti paga lo faccia perché si preoccupano del fatto che il gioco sia divertente? Oh, cara mia…”
La mente di Mala corse all’impazzata. Era come risolvere uno di quegli enigmi. Ovviamente al signor Banerjee non importava niente degli altri giocatori. Ovviamente non lavorava per il gioco. Se avesse lavorato per il gioco, avrebbe potuto semplicemente sospendere gli account dei giocatori che Mala combatteva. La soluzione si affacciò nella sua mente “Sono rivali d’affari, quindi?”.
“Oh, si, sei intelligente come ho pensato dovessi essere. Si, esatto. Sono rivali d’affari. Da qualche parte, c’è un gruppo di giocatori identico a loro, pagati per livellare mecha, o farmare gold[1], o ottenere terre, o qualsiasi altra cosa che possa trasformare il loro lavoro in denaro. E a chi credi vada questo denaro?”
“Al mio capo”, disse lei. “E ai suoi capi. E’ così che funziona”. Tutti lavoravano per qualcuno.
“E ti sembra giusto?”
“Perché no?”, disse Mala. “Lavori, crei qualcosa o fai qualcosa, e la persona per cui lo fai ti paga per il tuo lavoro. Questo è il mondo, è come funziona”
“Cosa fa la persona che ti paga per guadagnarsi qualcosa dal tuo lavoro?”
Mala ci pensò. “Trova il modo per trasformare quel lavoro in denaro. Mi paga per quello che faccio. Queste sono domande stupide, sai?”.
“Lo so”, disse Sorellona Nor. “Sono le domande stupide che hanno alcune delle risposte più sorprendenti ed interessanti. La maggior parte della gente non pensa mai a farsi le domande stupide. Sai che cosa è un sindacato?”
Mala ci pensò. C’erano sindacati in tutta Mumbai, ma nessuno a Dharavi. Aveva sentito molta gente parlarne. “Un gruppo di lavoratori”, disse lei. “Che fanno sì che i loro capi li paghino di più”. Pensò a tutto quello che aveva sentito. “Impediscono agli altri lavoratori di prendere il loro lavoro. Vanno in sciopero”.
“Questo è quello che i sindacati fanno. Ma non è ciò che sono. Dimmi questo: se tu andassi dal tuo capo e chiedessi più soldi, meno ore di lavoro e migliori condizioni lavorative, cosa pensi direbbe?”
“Riderebbe e mi manderebbe via”, disse Mala. Questa era una domanda incredibilmente stupida.
“Hai quasi certamente ragione. Ma se tutti i lavoratori andassero da lui e chiedessero la stesa cosa? Cosa succederebbe se, ovunque andasse, i lavoratori gli dicesse ‘Questo è quanto valiamo’ e ‘Non verremo trattati in questo modo’ e ‘Non puoi toglierci i nostri lavori a meno che non ci sia una valida ragione per farlo’? Cosa succederebbe se tutti i lavoratori, ovunque, pretendessero questo trattamento?”.
Mala scossa la tessa. “E’ un’idea ridicola. C’è sempre qualcuno più povero che accetterà il lavoro. Non importa. Non può funzionare”. Si rese conto di essere furiosa. “E’ stupido!”.
“Ammetto che sia abbastanza improbabile”, disse la donna, e c’era un inconfondibile tono divertito nella sua voce. “Ma pensa per un momento al tuo datore di lavoro. Sai dove sono i suoi datori di lavoro? Sai dove sono i giocatori che stai combattendo? Dove sono i loro clienti? Sai dove sono io?”
“Non vedo come questo possa avere importanza…”
“Oh, importa. Importa perché nonostante tutte queste persone siano sparse in giro per il mondo, non c’è una vera distanza fra di esse. Chiacchieriamo come se fossimo vicine, ma io sono a Singapore, tu sei in India. Dove? Delhi? Kolkata? Mumbai?”.
“Mumbai”, ammise lei.
“Non parli come se fossi di Mumbai”, disse lei, “Hai un meraviglioso accento. Uttar Pradesh?”.
Mala fu sorpresa di sentire lo stato in cui era nata e in cui si trovava il suo villaggio indovinate così facilmente. “Si”, disse. Era una ragazza del villaggio, era il Generale Robotwallah e questa donna l’aveva inquadrata molto velocemente.
“Questo gioco ha il suo quartier generale in America, in una città chiamata Atlanta. La corporazione è registrata a Cipro, in Europa. I giocatori sono di ogni parte del mondo. Quelli che stavi combattendo sono in Vietnam. Stavamo facendo un’adorabile conversazione prima che tu arrivassi e li facessi a pezzi. Siamo ovunque, ma siamo tutti qui. Chiunque il tuo capo potesse mai pagare per fare il tuo lavoro finirebbe qui, e noi potremmo trovare quei lavoratori e parlargli. Ovunque il tuo capo vada, i suoi lavoratori verranno tutti a lavorare qui. E qui potremmo chiacchierare come stiamo facendo adesso, e spiegare loro che mondo potremmo avere, se tutti i lavoratori cooperassero per proteggere gli interessi gli uni degli altri.”
Mala continuava a scuotere la testa. “Ti distruggerebbero e basta. Assolderebbero un esercito come il mio. E’ un’idea stupida”.
Il gigantesco megamecha la sollevò fino alla propria faccia, dove i suoi denti masticavano e sferragliavano. “Pensi che ci sia un esercito che ci possa battere?”.
Mala pensò che forse il suo esercito poteva farcela, se ci fossero stati tutti, se fossero stati preparati. Poi pensò a quanto dura era una battaglia contro queste bestie giganti. “Forse no. Forse potete fare quello che dite di poter fare”. Ci pensò un altro po’. “Ma nel frattempo, non avremmo un lavoro.”
La gigantesca faccia metallica annuì. “Si, questo è vero. All’inizio potresti trovarti a non avere la tua paga. E magari i tuoi compagni lavoratori potranno contribuire per aiutarti un poco. Questa è un’altra cosa che fanno i sindacati. E’ chiamato sussidio. Ma alla fine, tu, io tutti noi, ci godremmo un mondo dove veniamo pagati quanto ci serve per vivere, dove lavoriamo con condizioni accettabili e dove i posti in cui lavoriamo sono decenti. Tutto questo non merita un piccolo sacrificio?”
Eccoci al punto, “Tu mi chiedi di fare dei sacrifici. Perché dovrei fare dei sacrifici? Siamo poveri. Combattiamo per poco, perché abbiamo ancora di meno. Perché pensi che dovremmo fare dei sacrifici? Perché tu non ti sacrifichi?”
“Oh, sorella, tutti noi abbiamo fatto dei sacrifici. Capisco che tutto questo per te è molto nuovo, e che ci vorrà un po’ di tempo per abituartici. Sono certa che ci rivedremo di nuovo, un giorno. Dopo tutto, giochiamo tutti nello stesso mondo qui, non è vero?”
Mala realizzò che il respirare che aveva sentito, le altre voci sul canale di chat, era cessato. Per un breve periodo di tempo, c’erano state solo Mala e la donna che la chiamava ‘sorella’”.
“Qual’è il tuo nome?”
“Mi chiamo Nor-Ayu”, disse lei. “Ma mi chiamano ‘Sorellona Nor’. In tutto il mondo mi chiamano così. Come ti devo chiamare?”
Mala stava quasi per dire il proprio nome, ma si fermò. Al suo posto, disse “Generale Robotwallah”.
“Un ottimo nome”, disse Sorellona Nor. “E’ stato un piacere conoscerti”. E con queste parole, il mecha gigante la lasciò a terra e se ne andò, schiacciando gli zombie sotto ai suoi piedi.
Mala si alzò e sentì diversi scricchiolii dalle sue ossa e sulla sua schiena. Era rimasta seduta per, uhm, ore.
Girò la testa da un lato e dall’altro per sgranchirsi il collo e vide il nipote idiota della signora Dibyendu che la guardava. Il suo labbro inferiore era intriso di puzzolente saliva mischiata al betel, e la guardava con una chiarezza di intenzioni che le fece contorcere le interiora.
“Sei rimasta qui da sola per me”, disse lui, con un grosso ghigno sulla faccia. I suoi denti erano marroni. Non era realmente un idiota: non aveva un vero problema cerebrale, in ogni caso. Ma era davvero duro di comprendonio e lento, con una forza brutale che la signora Dibyendu descriveva sempre come la sua “speciale fermezza”. Mala pensò che si trattava solo di un teppista. Lo aveva visto camminare nelle strette strade di Dharavi. Non cedeva mail passo alle donne o agli anziani, costringendoli a girargli attorno anche quando questo significava passare sul fango o cose peggiori. E masticava betel tutto il tempo. Un sacco di gente masticava betel, era come fumare, ma sua madre detestava questa abitudine e e le aveva detto così tante volte che era un’abitudine infima e sporca che Mala non poteva non pensar male dei masticatori di betel.
Lui la guardava con gli occhi iniettati di sangue. Di colpo lei si sentì molto vulnerabile, nella maniera in cui si sentiva sempre nei primi tempi a Dharavi. Lei fece un passo a destra, e lui fece un passo nella stessa direzione. Quello era un punto di non ritorno: ora che le aveva bloccato la via d’uscita, aveva annunciato la sua intenzione di farle del male. Questa era strategia militare di base. Lui aveva fatto la prima mossa, quindi aveva l’iniziativa, ma aveva anche mostrato le sue intenzioni velocemente, quindi…
Lei fintò a sinistra e lui ci cascò. Mala abbassò la testa come un toro e lo colpì nel mezzo del torso. Essendo lui già sbilanciato, cadde di schiena. Lei non smise di muoversi, non guardò dietro di se, continuò semplicemente a correre, immaginandosi un toro in carica, passandogli sopra mentre raggiungeva la porta senza fermarsi. Un tallone lo colpì alla scatola toracica, un altro si appoggiò sulla sua faccia, andando sulle labbra e il naso. Mala avrebbe desiderato di sentire il crunch di qualcosa che si rompeva, ma ciò non successe.
Fu fuori dalla porta in un istante, nell’aria fredda della buia, buia notte di Dharavi. Intorno a lei, il suono dei ratti che correvano sui tetti e il distante rumore delle strade. E molti altri suoni, meno identificabili, suoni che avrebbero potuto essere prodotti da gente nascosta nell’ombra intorno a loro. Discorsi soffocati. Un treno distante.
Di colpo, mandare via il suo esercito non le sembrò più essere stata una buona idea.
Dietro di lei, sentì un suono di minaccia molto più chiaro. Il nipote idiota che attraversava la porta fracassandola, le sue scarpe che colpivano la strada di terra battuta. Lei scivolò in un vicolo fra due edifici, poco più largo di lei, e i suoi piedi finirono in un qualche genere di liquido tiepido che mandò un odore orribile alle sue narici. Il nipote idiota le passò oltre nella notte. Lei rimase ferma. Lui tornò indietro, cercandola in ogni direzione.
Ed eccola lì ferma, ad aspettare che lui si arrendesse, cosa che lui non avrebbe fatto. Correva avanti e indietro. Era diventato lui il toro, arrabbiato, privo di stanchezza, stupido. Sentì la voce di lui raschiargli in gola. Lei aveva il telefono cellulare in mano, mentre con l’altra schermava la luce traditrice che questo emetteva dal piccolo schermo. Erano le 12:47 adesso, e non era mai stata da sola a quest’ora in tutti i suoi 14 anni di vita.
Avrebbe potuto mandare un sms a qualcuno nel suo esercito… Sarebbero venuti a prenderla, giusto? Se erano svegli, o se i loro cellulari li svegliavano. Nessuno però era sveglio a quest’ora. E come spiegare il tutto? Cosa dire?
Si sentì un’idiota. Si sentì piena di vergogna. Avrebbe dovuto prevedere questo, avrebbe dovuto essere il generale, avrebbe dovuto usare una strategia. Invece, era rimasta in trappola.
Poteva aspettare. Tutta la notte, se necessario. Non c’era bisogno di lasciare che il suo esercito conoscesse la sua debolezza. Il nipote idiota si sarebbe stancato o il sole sarebbe sorto, era lo stesso per lei.
Attraverso le sottili mura delle case ai suoi due lati, si sentiva russare. L’odore orribile risaliva dal liquido sotto di lei nel rigagnolo e qualcosa di viscido si stava muovendo fra i suoi piedi. Le bruciava la pelle. I ratti scorrazzavano sopra la sua testa, facendo lo stesso suono che fa la pioggia sui tetti di latta. Stupida, stupida, stupida, era il suo mantra, che si ripeteva in continuazione nella sua mente.
Il toro si stava stancando. Al passaggio successivo ansimava profondamente, e ad ogni respiro mandava l’orribile puzza del betel davanti a sé, come l’odore dolciastro della putrefazione. Poteva aspettare che passasse un’altra volta, poi correre via.
Era un buon piano. Un piano che odiava. Lui l’aveva… lui l’aveva minacciata. Lui l’aveva spaventata. Lui doveva pagare. Lei era il Generale Robotwallah, non semplicemente una qualche ragazza dal villaggio. Lei era di Dharavi, dura. Furba.
Lui ansimò superandola e lei scivolò fuori dal vicolo, i piedi che uscivano dal fango con un plop ben udibile. Lui stava ancora guardando nell’altra direzione, non la aveva ancora sentita, le dava le spalle. Gli stupidi ragazzi del suo esercito si picchiavano solo faccia a faccia, parlavano della mancanza di “onore” nel colpire qualcuno alle spalle. L’onore era solo una stupida cosa dei maschi. La vittoria è meglio dell’onore.
Strinse le braccia attorno a se e corse verso di lui, i muscoli delle braccia tesi, le mani all’altezza delle spalle. Lo colpì in alto e continuò a correre, nella stessa maniera in cui aveva fatto prima e lui cadde di nuovo, del tutto impreparato all’assalto alle spalle. Il suono che fece sullo sporco terreno fu simile al suono di una capra caduta morta al macello. Stava cercando di rigirarsi, quando lei tornò indietro e gli corse sopra, saltando e atterrando con entrambi i piedi fangosi sulla sua testa, spingendo la sua faccia nel fango. Lui urlò di dolore, il suono attutito dal terriccio, e poi rimase a terra, stordito.
A questo punto lei tornò nuovamente indietro, si inginocchiò vicino alla sua testa, con la bocca a pochi centimetri da uno degli orecchi pelosi di lui.
“Non sono rimasta indietro per te al Caffè. Stavo facendomi i fatti miei”, disse lei. “Non mi piaci. Non dovresti dare la caccia alle ragazze, altrimenti le ragazze potrebbero girarsi e dare la caccia a te. Hai capito? Dimmi che hai capito, prima che strappi la tua lingua e la usi per pulirtici il culo”. Parlavano così nei canali di gioco tutto il tempo, almeno, i ragazzi lo facevano, lei aveva sempre disapprovato questa cosa. Ma le parole avevano potere, poteva sentirlo nella propria bocca, caldo come il sangue quando ti mordi la lingua.”
“Dimmi che hai capito, idiota!”, sibilò.
“Ho capito”, disse lui, e le parole vennero fuori spezzate, da delle labbra spezzate e da un naso spezzato.
Lei si girò ed iniziò ad andarsene. Lui grugnì dietro di lei, poi urlò “Puttana! Stupida puttana!”.
Lei non ci pensò nemmeno un istante, si limitò ad agire. Si voltò, corse verso il corpo ancora prono di lui, indistinto nell’oscurità, un passo, due passi, come un campione di calcio che stia per calciare un fallo e gli tirò un calcio, l’acqua fetida che sprizzò dalla scarpa zuppa quando il suo piede colpì l’enorme, stupida cassa toracica di lui. Qualcosa fece “snap” lì dentro… forse molte cose e, oh, non era magnifico?
Lui era ogni uomo che l’aveva spaventata, che le aveva urlato dietro schifezze, che aveva terrorizzato sua madre. Era l’autista di corriera che aveva minacciato di abbandonarle al margine della strada se non gli avessero dato altri soldi. Ogni cosa ed ogni persona che l’avesse mai fatta sentire piccola e spaventata, una ragazza del villaggio. Ognuna di queste cose.
Si girò di nuovo. Lui adesso stava afferrandosi il fianco e piagnucolando, piangendo stupide lacrime sulle sue stupide guance, luminose nella untuosa luce lunare che filtrava nella nebbia dei fumi della plastica che era sempre sospesa su Dharavi. Si allontanò per prendere la rincorsa e tornò verso di lui, un passo, due passi, calcio e “crunch“, ecco di nuovo quel soddisfacente suono che veniva dalle sue costole. I singhiozzi gli si raccoglievano in gola e poi prese un grosso, tremante respiro e ululò come un gatto ferito nella notte, urlò così forte che persino qui a Dharavi si accesero delle luci e delle voci si avvicinarono alle finestre.
Fu come se un incantesimo si fosse spezzato. Eccola lì, tremante e zuppa di sudore, ed ecco della gente che cercava di vederla nell’oscurità. Di colpo tutto quello che volle fu essere a casa il più presto possibile, se non ancora più veloce. Era il momento di andarsene.
Corse. Mala adorava correre fra i campi quando era una bambina, coi capelli che volavano dietro di lei, le ginocchia e le braccia che si muovevano freneticamente lungo le strade si terra. Ora correva nella notte, la puzza dell’acqua di scolo che la colpiva al naso ad ogni passo. Delle voci la rincorrevano nella notte, anche se venivano filtrate dal martellare del battito cardiaco nelle sue orecchie e più tardi non poté dire se queste voci erano vere o immaginarie.
Ma alla fine fu a casa e salendo le scale fino all’appartamento al terzo piano che aveva affittato per la sua famiglia. I forti colpi dei suoi passi sulle scale fecero urlare i vicini del piano di sotto, ma lei li ignorò, tirò fuori, impacciata, la chiave, ed entrò.
Suo fratello Gopal guardò verso di lei dal suo materasso, sbattendo le palpebre nell’oscurità, il torso magro nudo. “Mala?”
“E’ tutto OK”, disse lei. “Non è nulla. Dormi, Gopal”.
Lui tornò ad accasciarsi sul letto. Le scarpe di Mala puzzavano. Se le tolse, usando solo la punta delle dita, e le lasciò fuori dalla porta. Forse sarebbero state rubate — anche se dovevi essere davvero disperato per rubare quelle scarpe. Ora i suoi piedi puzzavano. C’era un grosso secchio d’acqua in un angolo e un mestolo. Con cautela, portò il mestolo pieno fino alla finestra, aprì le imposte scricchiolanti e versò lentamente l’acqua sui suoi piedi, tirandone fuori dalla finestra prima uno e poi l’altro. Gopal si mosse di nuovo “Fai silenzio”, le disse, “è ora di dormire”.
Lei lo ignorò. Le mancava ancora il fiato, e la realtà di ciò che aveva fatto stava iniziando a fare breccia dentro di lei. Aveva tirato dei calci al nipote idiota… quanti? due? tre? e qualcosa nel suo corpo aveva fatto “crack” ogni volta. Perché l’aveva bloccata? Perché l’aveva inseguita nella notte? Cosa era che faceva sì che chi era grosso e forte decidesse di fare uno sport del terrorizzare i deboli? Interi gruppi di ragazzi facevano questo alle ragazze e a volte persino a donne adulte… le seguivano, le chiamavano, le toccavano, qualche volta si arrivava persino allo stupro. Lo chiamavano “Eve-teasing” e lo trattavano come un gioco. Non era un gioco, non se eri la vittima.
Perché le avevano fatto fare questo? Perché tutti loro le avevano fatto fare questo? Il suono, “crack”, le aveva dato così tanta soddisfazione in quel momento, e la faceva stare così male adesso. Stava tremando, nonostante la notte fosse calda, una di quelle notti bollenti in cui tutto era viscido per l’afa.
E stava piangendo, anche, il pianto arrivava senza che lei riuscisse a controllarlo, e si vergognava anche di questo, perché era ciò che succedeva ad una ragazza del villaggio, non al Generale Robotwallah.
Mani callose le toccarono le spalle, stringendole. L’odore di sua madre arrivò al suo naso: sudore pulito, spezie, sapone. Forti, secche braccia la circondarono.
“Figlia, oh, figlia, cosa ti è successo?”
E lei voleva dire ad Ammaji tutto, ma tutto ciò che veniva fuori era un pianto. Si girò verso la madre e le premette la testa al seno, con i singhiozzi che arrivavano e arrivavano, ad ondate, sentendosi rivoltare da dentro. Gopal si alzò e si spostò nell’altra camera, silenzioso e spaventato. Lei lo vide, vide tutto da una grande distanza, il suo corpo che sussultava per i singhiozzi, la mente da qualche altra parte, fredda e remota.
“Ammaji”, disse alla fine. “C’era un ragazzo.”
La madre la strinse più forte. “Oh, Mala, dolce bambina…”
“No, Ammaji, non mi ha toccato. Ha provato. L’ho fatto cadere a terra. Due volte. E gli l’ho preso a calci e l’ho preso a calci, finché non ho sentito cose che si spezzavano e poi sono corsa a casa.”
“Mala!” sua madre la tenne ad un braccio di distanza. “Chi era lui?” Intendendo dire: Era qualcuno che può venirci a cercare, che può crearci problemi, che può rovinarci qui a Dharavi?
“Era il nipote della signora Dibyendu, quello grosso, quello che crea guai tutto il tempo.”
Le dita di sua madre la strinsero più forte sulle braccia e gli occhi di lei si spalancarono.
“Oh, mala, Mala — oh, no”.
E Mala seppe esattamente cosa sua madre voleva dire con questo, perché era consumata dall’orrore. La loro relazione con il signor Banerjee veniva dalla signora Dibyendu. E l’appartamento, le loro vite, il telefono, i vestiti che indossavano… Tutto veniva dal signor Banerjee. Erano in equilibrio su una pila di relazioni e la signora Dibyendu ne era alla base, tutto era sulle sue spalle. E il nipote idiota poteva convincerla a scuotere le spalle e tutto sarebbe crollato giù: il denaro, la sicurezza, tutto.
Questa era la più grande ingiustizia di tutte, l’ingiustizia che l’aveva spinta a calciare e calciare e calciare: questo stupido ragazzo sapeva che poteva cavarsela con le sue minacce e le sue azioni perché lei non poteva permettersi di fermarlo. Ma lo aveva fermato e non poteva, non voleva, essere dispiaciuta.
“Parlerò col signor Banerjee”, disse. “Ho il suo numero di telefono. Sa che sono una buona lavoratrice… sistemerà le cose. Vedrai, Ammaji, non preoccuparti.”
“Perché, Mala, perché? Non potevi solo correre via? Perché hai dovuto fare male a questo ragazzo?”
Mala sentì la rabbia tornarle dentro. Sua madre, persino sua madre…
Ma capiva. Sua madre voleva proteggerla, ma sua madre non era un generale. Era solo una ragazza del villaggio, ormai cresciuta. Era stata picchiata da troppi ragazzi e da troppi uomini, troppo dolore, povertà e paura. Questo era ciò che Mala era destinata a diventare, qualcuno che fuggiva da chi la attaccava perché non si poteva permettere di farli arrabbiare.
Non lo avrebbe fatto.
Non importava cosa sarebbe successo col signor Banerjee e la signora Dibyendu e il suo nipote idiota, non sarebbe diventata quella persona.