'One World' ed il nazionalismo terziario
- Perché il mercato mondiale totalizzato non può impedire la barbarie etnica? -
di Robert Kurz
Senza ombra di dubbio, l'attuale quadro del mondo è definito da due fenomeni ugualmente reali che sembrano, tuttavia, escludersi reciprocamente dal punto di vista logico. Se, da una parte, il moderno sistema di mercato ha raggiunto il suo "obiettivo" ed ha prodotto una rete sociale la cui trama abbraccia senza eccezioni la Terra intera, dall'altra parte, questo One World sembra smentire sé stesso, in quanto, proprio nell'istante della sua consolidazione, un'ondata mai vista prima di nazionalismo, separatismo e guerre civili sommerge il globo. Nei salotti tedeschi, nelle baraccopoli africane e persino fra gli indios delle foreste tropicali, identiche radio di fabbricazione giapponese trasmettono monotonamente la medesima musica pop internazionalizzata e le immagini trasmesse via satellite mostrano, per la prima volta, l'unità del mondo umano, realizzata a partire da quella sognata prospettiva "divina", capace di comprendere in sé tutta la sfera terrestre come una totalità immediata. Ma forse, nonostante tutto questo, sulla soglia del XXI secolo, dovremo essere testimoni di un'epoca di "nazionalizzazione delle masse" (George L.Mosse)?
Qualcosa dev'essere andato storto dal momento che i nostri antenati storici sembrano emergere dalle loro tombe. L'era borghese, che ha prodotto la nazione propriamente detta, è stata sempre essenzialmente economicista, e questo enigma forse può essere risolto a partire dal processo di socializzazione di mercato.
Il sistema produttore di merci, che si è sviluppato a partire dal corpo della società feudale e, alla fine, l'ha distrutto, era in germe, fin dall'inizio, un sistema mondiale. Indifferente a qualsiasi contenuto, la logica della valorizzazione del denaro non conosce alcuna lealtà che la possa limitare. Tuttavia, nel suo processo di formazione, l'ordito della ragnatela del mercato mondiale era ancora debole per poter diventare lo spazio funzionale immediato dell'emergente economia mondiale. Così, quella struttura misteriosa che dava forma alla nazione, prodotta a partire da diversi e disparati elementi - come la lingua, la geografia, le tradizioni culturali e giuridiche e le vie di trasporto - fu ciò che per la prima volta allargò il ristretto orizzonte del campanile feudale, fondando, in quanto spazio sociale e storico iniziale dei sistemi di mercato, una forma nuova ed impersonale di lealtà.
La consacrazione della bandiera delle nazioni si contrapponeva, però, alla ragione illuminista del mondo, che nel XVIII secolo aveva già coniato il concetto enfatico di cosmopolitismo, che teneva immediatamente conto del senso segreto della logica di mercato senza frontiere. E' per questo motivo che Kant e Fichte cercavano ancora di derivare la propria forma particolare di nazione dai principi universali della ragione, conciliando così la contraddizione evidente. Lo Stato nazionale, in quanto "Stato della ragione" avrebbe dovuto continuare come "stato di mercato chiuso in sé stesso" (Fichte) e, contemporaneamente, portare alla "pace perpetua" (Kant), ratificando così i principi universali della ragione. Tuttavia, per lungo tempo la logica cieca della concorrenza, inerente al sistema di mercato, aveva permesso solo un progresso della forma universale della merce nel quadro di una lotta sanguinosa delle nazioni emergenti in lotta per il predominio regionale o globale. Questa lotta segnò tutto il XIX secolo e la prima metà del XX. In quell'epoca, il mercato mondiale propriamente detto rimase una sfera secondaria e subordinata alle economie nazionali, coperto da forme militari e politiche di auto-affermazione reciproca delle stesse forme.
Già con le lotte di liberazione contro Napoleone, l'astratta ragione illuminista, che non aveva mai avuto una visione dell'umanità come un tutto, aveva attratto le nuvole nere dell'irrazionalismo sull'auto-legittimazione nazionale. Quanto più le giovani nazioni ed i movimenti nazionali emergenti si proiettavano anacronisticamente nel passato,, e cominciavano a rivendicare per sé tradizioni trasfigurate storicamente , quanto meno erano adatti a concepire sé stessi come fenomeno storico, tanto più diventavano ideologici, quasi al punto di diventare delle costanti antropologiche. La formazione nazionale non era più fondata sui principi universali della ragione, ma, sempre più, su basi "etniciste", razziste e biologiche. Come se questo non bastasse, il darwinismo sociale aveva fornito al principio della concorrenza del sistema produttore di merci una pretesa base naturale. Nascevano così quelle letali ideologie di legittimazione di epoca imperialista, che sarebbero sfociate in maniera catastrofica nelle due guerre mondiali e nell'olocausto fascista. Nella lotta per le zone di influenza e di supremazia mondiale, le economie nazionali che avevano rotto le loro vecchie cuciture cercavano irrazionalmente di innalzarsi ad "economie nazionali di portata mondiale" - grandi aree economiche sotto controllo nazionale - una contraddizione in termini.
L'epoca imperialista veniva lasciata alle spalle soltanto con la Pax Americana del dopoguerra, per quanto paradossale questo possa sembrare allo "antimperialismo" di sinistra. E' vero che gli Stati Uniti avevano a cuore i principi universali della ragione occidentale, da molto tempo ribassati al loro banale nucleo mercatologico del "fare soldi", ma con questo non avevano altre mire se non quelle della propria gloria e del proprio potere, che alla fine della Seconda guerra mondiale risplendeva in maniera seducente a partire da Fort Knox (dov'era ammucchiato, nel 1945, circa l'80% delle riserve auree globali). Tuttavia, l'americanizzazione del mondo non era più un imperialismo vecchio stile, ma soltanto garanzia dell'osservanza delle regole concorrenziali e di mercato del suo paradigmatico sistema di merci, che si era liberato delle scorie europee del XIX secolo.
La ragione kantiana del mondo poteva apparire un po' volgare nella sua incarnazione yankee, ma è solamente in questa forma che essa ha potuto di fatto scendere sulla Terra. A dispetto di tutte le contese della Guerra Fredda, sotto il tetto dell'americanizzazione globale, è stato possibile un boom fordista senza uguali ed una serie di miracoli economici. Priva di ostacoli, e non più sotto il giogo del "primato della politica" che aveva caratterizzato il vecchi imperialismo, la concorrenza mondiale mise in moto forze produttive fino ad allora inconcepibili, sotto la forma della microelettronica, dei computer e dell'automazione. Su questa base tecno-scientifica nacquero mercati totalmente nuovi - subito globalizzati - che fecero gradualmente impallidire perfino l'involucro politico della Pax Americana. I processi di produzione divennero talmente sezionabili che in molti settori divenne possibile, per la prima volta, l'internazionalizzazione della stessa produzione di beni. Allo stesso tempo, i costi di comunicazione e di trasporto vennero abbassati a tal punto che finirono per coinvolgere anche le medie e le piccole imprese nell'internazionalizzazione. Con le grandi corporazioni multinazionali degli anni 70, il mercato mondiale si convertì in spazio funzionale immediato dei soggetti economici. Il sistema totale di produzione delle merci cominciò così a dissolvere le economie nazionali ormai invecchiate.
Questo processo di internazionalizzazione dell'economia di mercato fece sì che anche la critica tradizionale al capitalismo apparisse invecchiata. Il defunto "internazionalismo proletario" non era di fatto meno astratto della ragione borghese del mondo illuminista. Era, piuttosto, il suo legittimo discendente. Il movimento operaio marxista aveva seguito, in realtà, la stessa strada nazionaliste di quella società borghese che supponeva di combattere.
La socialdemocrazia occidentale è stata la prima a rivelare il suo carattere nazionale nel fuoco dello sviluppo alla fine del secolo, ed è questo carattere che oggi le conferisce, particolarmente in Germania, quell'inimitabile aria di rispettabilità guglielmina da museo. Successivamente, la modernizzazione tardiva dell'Est ha creato il "patriottismo sovietico" stalinista, che rimane bloccato dietro la cortina di ferro. Infine, il movimento anticolonialista nell'emisfero Sud ha prodotto quel nazionalismo liberatore che, per qualche tempo, invece di riflettere sul suo proprio stadio di socializzazione, ha nascosto sotto un manto romantico la gioventù ribelle d'Occidente.
In contrasto con queste figure decadenti della modernizzazione, che sono chiaramente rimaste legate al paradigma nazionalista del XIX secolo, oggi, il trionfo dell'internazionalizzazione e della globalizzazione capitalistica dell'economia di mercato pare essere completo. Tuttavia, questo trionfo lascia in bocca un gusto amaro. Gli Stati autarchici, limitati alla sfera nazionale, ed il nazionalismo liberatore dei paesi dell'Est e del Sud non è stato semplicemente il risultato delle ideologie diventate reazionarie, ma piuttosto il frutto della stessa pressione concorrenziale del mercato mondiale. Se, nel XIX secolo, il processo primario della nazionalizzazione occidentale doveva essere diretto principalmente contro le strutture feudali, la nazionalizzazione secondaria del XX secolo, tanto ad Est quanto a Sud, era il prodotto di un mondo modernizzato, costituito dagli Stati nazionali, e si dirigeva contro la supremazia delle nazioni occidentali.
Fino alla metà del secolo, o perfino anche dopo, questa lotta poteva ancora essere condotta nella stessa forma politica e militare nella quale erano stati combattuti i conflitti interni, per la supremazia, in Occidente. Il patriottismo sovietico dell'Est ed i movimenti di liberazione dei paesi dell'emisfero Sud si sovrapponevano alla concorrenza interna dell'Occidente, producendo nuove linee di conflitto globale che, ancora una volta, prolungavano artificialmente la vita utile di quel "primato della politica" che era già stato svuotato dalla globalizzazione economica dei mercati. Gli Stati pianificati, autarchici e sovvenzionati dalle economie nazionali secondarie (e ritardatarie), non si rendevano conto di lottare, sempre più, con armi del passato contro il nemico invisibile dell'internazionalizzazione economica del mercato.
Per quanto terribili e dittatoriali siano stati i regimi del Secondo e del Terzo Mondo, certamente hanno mantenuto quella che poteva essere chiamata dignità di auto-affermazione di fronte alla pressione occidentale per l'apertura del mercato - e questo non solo in nome degli interessi delle loro élite ciniche ed autoritarie. Era quindi prevedibile che questi paesi fossero forzatamente massacrati sul campo di battaglia della concorrenza globale aperta, quale che fosse l'ideologia leggittimatrice che li guidava. La globalizzazione microelettronica, in meno di un decennio, è riuscita a venire a capo di quello che le operazioni di polizia nordamericane non sono riusciti a fare in più di 30 anni di interventi militari; la cortina di ferro è caduta sotto la pressione dei deficit non più sostenibili sulla bilancia commerciale e nei flussi di capitale delle economie ritardatarie. Queste sono state aperte alla libera concorrenza, proprio perché per mezzo di questa fallissero. In quanto, senza poter arrivare ai livelli necessari di redditività, tali economie cadono fuori dalle relazioni globalizzate del mercato.
Il vecchio sogno dell'umanità può essere realizzato soltanto in maniera negativa e catastrofica. Il motivo di questo può essere trovato nella maniera rigidamente unilaterale con cui è stato formato l'One World. Il concetto illuminista di cosmopolitismo, nella sua natura cangiante, nascondeva il fatto che il cittadino dei sistemi di mercato è essenzialmente una figura schizofrenica, nella misura in cui si presenta sempre con una doppia funzione: da un lato, come homo oeconomicus e, dall'altro, come homo politicus. Il soggetto di mercato può sopravvivere solamente se possiede un alter-ego come soggetto-cittadino. Lo Stato moderno deve, non solo riunire i soggetti economici forgiati dalla forma merce e garantire loro uno statuto di persona giuridica, ma ha bisogno anche di impegnarli attivamente, e per il più tempo possibile, nel processo di mercato, oltre a regolare e distribuire il flusso monetario. In linea di principio, questo è coerente con il monetarismo di un Milton Friedman; Keynes, com'è noto, desiderava anche reprimere il commercio mondiale, in quanto riteneva che la sua teoria fosse attuabile soltanto nella cornice degli Stati nazionali.
Uno Stato mondiale, di fatto non può esistere. Ogni Stato è, secondo la sua propria natura, una forma particolare che deve rimanere delimitata da frontiere esterne. Oggi questo è vero più che mai, in quanto gli Stati cercano di esportare i costi operativi del sistema produttore di merci, sia dal punto di vista sociale che ecologico, attraverso le demarcazioni reciproche delle loro frontiere. E' per questo che lo stesso mondo occidentale degli Stati nazionali non si è disciolto in un'unità globale. Oggi più che mai, i grandi blocchi economici (CCE. EUA, Giappone) stabiliscono barriere reciproche sia fra di loro che nei confronti dei paesi storicamente ritardatari dell'Est e del Sud, mediante strutture di sovvenzione attraverso conflitti commerciali permanenti. Inoltre, esistono reti sociali, infrastrutture costituite e tariffe di importazione solo nella sfera degli stati nazionali, ossia, in un mondo costituito da Stati, si può parlare di politiche distributive solo a determinati fini, come il servizio sanitario, la giustizia, la ricerca, l'istruzione, ecc..
Pertanto, ciò che costituisce l'One World, o ciò che propriamente è stato internazionalizzato e globalizzato, attiene unicamente ed esclusivamente alle forme economiche della circolazione del denaro e del mercato. Nella misura in cui, tuttavia, il livello di civiltà della modernità viene associato allo Stato, un tale modello è rimasto limitato agli Stati nazionali. o meglio, ai blocchi economici. Soltanto il "borghese" (il soggetto economico, o di mercato, puro) è diventato cittadino del mondo, mentre il "cittadino" (il soggetto statale o giuridico), che è limitato alla sfera nazionale degli Stati e della loro natura, non può globalizzarsi. La modernità deve essere, quindi, una prova del fuoco: la forma merce, essenzialmente illimitata, e lo Stato nazionale, essenzialmente particolare, non possono più vivere in armonia. La divisione globalizzata del lavoro e l'intercomunicazione del sistema di mercato vanno oltre le infrastrutture di base e le politiche distributive, limitate sul piano statale; il sistema finanziario ed il credito globalizzato - come i mercati degli eurodollari - sono al di là dei meccanismi di controllo delle banche centrali nazionali.
Tuttavia, il fatto per cui i costi operativi del sistema, tanto sociali quanto ecologici, possono essere distribuiti ed esternalizzati solo attraverso l'istanza particolarizzata dello Stato, fa sì che, in questo modo, il processo di mercato e monetario globalizzato produca catastrofi nazionali per i suoi sconfitti. Se nella dinamica interna di un'economia nazionale possono essere create strutture di compensazione, attraverso regolamentazioni statali - per quanto limitate ed insoddisfacenti siano - la sfera mondiale manca del tutto di un'istanza che svolga questo ruolo. Se esistono "problemi sociali" a livello nazionale, è possibile ricorrere ad organismi statali, con un grado maggiore o minore di sviluppo, ma nel processo di mercato globalizzato, uno Stato nazionale nel suo complesso diventa un "problema sociale", e perde così il terreno sotto i piedi. I mercati finanziari internazionali forniscono con sollecitudine accesso al capitale soltanto nelle condizioni di mercato, ossia, non funzionano, per loro essenza, come istanze sociali distributive a livello mondiale, ma semmai in funzione dell'importo degli interessi che devono ricevere. E' stato in questo modo che si è prodotta la crisi internazionale del debito, che cresce in maniera accelerata e si diffonde ogni giorno che passa. Gli Stati nazionali ed i blocchi economici, da parte loro, possono anch'essi fornire aiuti tecnici e monetari solo a partire dai propri interessi. Non esiste un'istanza giuridica mondiale; il tribunale internazionale di giustizia è soltanto una farsa, oltre ad essere disprezzato in maniera "sovrana" proprio dalla "superdemocrazia" nordamericana.
Perciò, il processo di globalizzazione dei mercati e del capitale semplicemente non disfa le vecchie economie nazionali, formando una maggiore unità, ma, al contrario, le soffoca in maniera sempre crescente. Se un'economia nazionale finisce sotto le ruote del mercato mondiale totalizzato, viene distrutta anche, a sua volta, la sua capacità interna di regolamentazione e distribuzione. Infatti, oggi, la quasi totalità degli Stati - inclusi i pretesi "vincitori" - è stata raggiunta dalla crisi generata dalla crepa che si è aperta fra i mercati globalizzati e la regolamentazione statale. La differenza attiene solamente al grado con cui si esternalizza.
Nelle economie in chiara disgregazione dell'emisfero Sud e dell'Est Europa, gli Stati nazionali hanno perso a tal punto la loro capacità di regolamentazione e di distribuzione, che la loro autorità statale soccombe insieme alla loro capacità di integrazione al mercato. Però, dalle rovine lasciate dal mercato mondiale, spunta il fungo velenoso di un nazionalismo terziario, che non ha più parentela alcuna con il nazionalismo europeo primario, del XIX secolo, né col nazionalismo liberatore secondario del XX secolo. Si tratta assai più di una "ondata di agitazione etnica (o parzialmente etnica)" (Eric J. Hobsbawn) che parla più del crollo delle economie nazionali, che del loro sorgere. In questo senso, non si tratta affatto di un nazionalismo in senso stretto. In quanto gli Stati nazionali del XIX e del XX secolo, nonostante tutte le ideologie leggittimatrici "etniciste e razziste", non erano in nessun modo basati sulla lealtà etnica. Al contrario, essa veniva lasciata alle spalle. Anche nel remoto e paradigmatico processo di nazionalizzazione europeo, le più diverse componenti etniche confluirono nella formazione nazionale. Fuori dall'Europa, in un modo o nell'altro, la maggior parte delle nazioni erano formazioni sintetiche, composte dalle più diverse tradizioni, e costituivano frequentemente delle nazioni multietniche.
Il nazionalismo terziario è, quindi, uno pseudo-nazionalismo etnico che nuota controcorrente rispetto ai suoi predecessori: è un prodotto della disperazione che affligge le popolazioni delle economie in disgregazione del mercato mondiale totalizzato. La globalizzazione economicista dell'One World ed il nazionalismo terziario mantengono fra loro una relazione di implicazione reciproca. Laddove si rompono le strutture di regolamentazione statale e non può più essere distribuito niente, si rompe anche la struttura di lealtà. La Slovenia e la Croazia pensano di poter tornare ad essere competitive più facilmente, o persino ad essere accettate dalla Comunità Europea, liberandosi dalle regioni povere della Serbia e della Macedonia. Speranze ugualmente filantropiche sono nutrite dalle repubbliche baltiche, che desiderano slegarsi dal centro di distribuzione sovietica, e dagli azeri, che preferiscono competere per conto proprio sul mercato mondiale, vendendo il loro petrolio all'Occidente a prezzo speciale, invece che, per esempio, fornire riscaldamento agli uzbeki. E' chiaro che, inversamente, il separarsi a fronte delle strutture distributive assomiglia alla discordia nelle regioni della povertà relativa o assoluta, che, a loro volta, abbandonano del tutto la vecchia lealtà e si convertono in potenziali aree di violenza.
Pertanto, la guerra civile si trova già pre-programmata e, nella turbata situazione attuale, bisogna mettere mano ad un qualche costrutto capace di fondare un carattere comunitario di delimitazione ed esclusione. In assenza di altri parametri di riferimento, in molte regioni sono state mobilitate, così, accanto al fondamentalismo religioso del mondo islamico, lealtà etniche che si riteneva fossero superate da molto tempo, come reazione aggressiva alla disintegrazione del livello di civiltà. Si scava di nuovo nell'insieme di ingiustizie e conflitti, reali o immaginari, risalenti a Mosè. L'Occidente non riesce ad affrontare questo irrazionalismo ignorante. Non solo perché esso è nato proprio dallo scatenamento del sistema globale di mercato, ma anche perché lo stesso Occidente non se n'è mai liberato.
Anche in Italia, la "lega Lombarda" vuole liberarsi del Sud impoverito e sottosviluppato. Il mezzogiorno minaccia di uscire dalle frontiere italiane e diventare un concetto paradigmatico per le nuove zone di povertà in tutti i paesi dell'Occidente stesso. In Germania, brucia il conflitto fra "Ossis" e "Wessis" (N.d.T.: rispettivamente, gli ex-abitanti della Repubblica Democratica Tedesca e gli abitanti della Repubblica Federale Tedesca); negli Stati Uniti, è visibile una nuova linea di forze che oltrepassa il vecchio conflitto razziale fra neri e bianchi, contrapponendo ora anglosassoni e latini, mentre in Canada cresce il separatismo francofono. Non manca molto a ché anche gli svizzeri, uno contro l'altro, si dichiarino, rispettivamente, tedeschi, italiani, zingari o extraterrestri. In ogni parte del globo, il nuovo nazionalismo terziario mobilita opposizioni etniche o nazionali che, riferite a diversi gradi alle epoche delle nazionalizzazioni passate, ora si stagliano nell'One World del mercato totale. E, dovunque, la forza motrice è la ridotta, o esaurita, capacità distributiva dello Stato.
In realtà, la nazionalizzazione etnica terziaria è solo un fenomeno di decadenza sprovvisto di qualsiasi prospettiva storica. In opposizione flagrante ai vecchi movimenti nazionalisti, non possiede alcuna struttura economica che possa sostenerla e portarla avanti. E neanche gli sfortunati processi di liberazione nazionale secondaria ancora esistenti possono essere risolti in maniera conseguente. I palestinesi, per esempio, non hanno la minima possibilità di formare un'economia nazionale autonoma e competitiva. Uno Stato palestinese non potrebbe essere altro che uno Stato da operetta, alimentato da risorse esterne. Lo stesso vale anche, nonostante la forte legittimazione post-Olocausto, per lo Stato nazionale Israeliano, che ancora non è capace di produrre nemmeno la metà del suo PIL. Se neppure gli sloveni posseggono la quantità necessaria di valuta per poter coprire la loro prevista moneta propria - il "tallero" - allora figuriamoci i croati, i lituani, gli armeni e i curdi, e ancora meno i sardi o i baschi, per non parlare nemmeno dei ceceni e dei gaugazi. Le lealtà etniche della disperazione sono nel loro insieme insostenibili. Non sono capaci nemmeno di sostituire il vecchio Stato nazionale a brandelli, né di produrre nuove strutture sociali riproduttive. Queste lealtà si costituiscono soltanto in mezzo e per mezzo di guerre civili aperte o latenti, e sussistono solo finché queste non si esauriscono. In tal senso, il nazionalismo terziario è solo una forma transitoria di annichilimento.
Non ha senso cercare di fermare la barbarie etnica e pseudoreligiosa, provocata dal carattere economicista dell'One World, modellato dalla forma merce, attraverso la "gestione del debito" e attraverso azioni poliziesche di dubbia legittimità - come si è fatto finora - guardando solo agli interessi strategici occidentali. Se l'ONU dev'essere legittimata come istanza mondiale, allora gli stessi Stati occidentali e i blocchi economici devono essere i primi a conferirle "sovranità". Inoltre, le azioni poliziesche dei baschi azzurri dovrebbero essere dirette in primo luogo contro l'oscura classe dei latifondisti in America Latina, in Asia e in Arabia, al fine di eliminare, quanto meno, la miseria primaria per mezzo dell'esproprio di quelle terre e per mezzo di riforme agrarie richieste da molto tempo. Un'ONU così legittimata dovrebbe allora passare ad organizzare trasferimenti internazionali di risorse che non dovrebbero essere sottomessi ai principi della concorrenza e della redditività della logica di mercato. Se la generalizzazione del grado occidentale di industrializzazione e del modello di produttività potrebbe significare l'immediato collasso della Terra, e se, invece, i paesi che non riescono a raggiungere quel modello restano privi di qualsiasi riproduzione vitale, allora lo "scambio di equivalenti" del sistema produttore di merci conduce, esso stesso, ad una situazione assurda. L'ONU, in quanto istanza mondiale effettiva, dovrebbe garantire il mantenimento di una produzione di generi di prima necessità in tutti i paesi e dovrebbe attivarsi affinché nelle relazioni internazionali ogni paese fornisca solo quello che può fornire a basso costo, senza prendere in considerazione il quadro fissato dal sistema di mercato. Avremmo, così, come conseguenza, uno "Stato mondiale", il quale, secondo la logica di mercato globale, per poter essere realizzato, avrebbe bisogno di una seconda Terra e di una seconda umanità, al fine di delimitare ed esternalizzare i suoi costi di produzione. La Comunità Europea, in quanto burocrazia sovra-statale, non fa altro che dare continuità allo stesso processo distruttivo, questa volta a livello continentale, in nome dei medesimi comandamenti di redditività. Sarebbe necessario, soprattutto, una rottura sociale a livello mondiale della logica mercantile stessa.
Questa proposta forse è meno utopica di quanto possa apparire a prima vista. se gli Stati che competono sul mercato mondiale ed i blocchi economici non vogliono legittimare l'ONU in maniera effettiva, allora prima o poi la sua pretesa "sovranità"le verrà sottratta in modo molto più doloroso dai mercati finanziari autonomizzati. Le catastrofi ecologiche che attraversano le frontiere esigono, ormai, non solo misure "non redditizie" ma anche sovranazionali. Secondo il parere unanime degli specialisti, in un futuro prossimo, ad esempio, mancherà ai combattenti fondamentalisti di entrambi i campi del conflitto arabo-israeliano, qualcosa di assai fondamentale: l'acqua. E se, nonostante la loro insolvenza, i bulgari non avessero avuto garantita la loro fornitura di energia nel prossimo inverno, essi avrebbero messo di nuovo in funzione lo loro difettose centrali nucleari che, giorno più giorno meno. si sarebbero volatilizzate per i cieli di tutta Europa.
In qualche modo, l'ONU, in quanto istanza mondiale effettiva (cosa che oggi non è e non può essere, se consideriamo la continua ed ostinata finzione di una "sovranità" mantenuta nell'ambito degli Stati nazionali) presupporrebbe una mutazione fondamentale nelle relazioni sociali di lealtà. Sarebbe anche necessaria che tale mutazione venisse "dal basso" e si situasse nel campo di azione degli individuo. Un movimento sociale che lottasse per un'ONU modificata, a favore della rinuncia alla sovranità da parte degli Stati che competono sul mercato mondiale, romperebbe anche con la falsa alternativa fra lealtà nazionale ed agitazione etnica all'interno della società. Esiste già, in ambito regionale, un gran numero di alternative, di movimenti di resistenza e di disobbedienza civile contro i deludenti tentavi di regolamentazione e contro i progetti faraonici di mercato mondiale costituito come Stato. Le proteste contro la paralisi ed il deterioramento di regioni intere, contro la devastazione sociale e la sterilizzazione culturale, contro le spese militari abusive, i grandi aeroporti, le centrali nucleari e le mostruose centrali di smaltimento nucleare, contro il traffico intensivo e la distruzione del paesaggio, costituiscono un poderoso arsenale sociale. E anche nelle economie in disgregazione si può avvertire una considerevole resistenza, non solo allo stato di assedio dell'amministrazione statale, ma anche nei confronti dell'etno-nazionalismo bellicista.
Tuttavia, affinché queste iniziative regionali possono effettivamente mobilitare il loro potenziale trasformatore, bisogna che superino l'ottusità espressa dal principio di San Floriano ("Salva la mia casa, incendia quell'altra"), prendendo coscienza della sua propria dimensione sociale a livello mondiale. Solo un regionalismo aperto verso il mondo, emancipatore, multiculturale e socio-ecologico (e oggi quasi tutte le regioni del mondo sono strutturate in maniera multietnica e multiculturale) potrebbe fondare una nuova reciprocità fra lealtà globali e regionali, capace di assumere una posizione di sfiducia nei confronti delle istituzioni europee tradizionali. La crisi globale del sistema di scambio delle merci non può più essere risolta attraverso la tradizionale trasformazione democratica degli interessi di mercato nelle forme limitate del mondo degli Stati parlamentari occidentali.
- Robert Kurz - (Testo pubblicato inizialmente sul Frankfurter Rundschau", il 4 gennaio del 1992, col titolo di "One World und jüngster Nationalismus".
fonte: EXIT!