Forse …

Creato il 21 novembre 2014 da Primula @primula_57

Sono giornate davvero intense queste, sia fuori sia dentro casa. Alle normali occupazioni quotidiane si sovrappongono lavori straordinari.
Capita che l’appartamento sia animato dalla presenza di elettricisti, muratori, imbianchini e di avere pochissimo tempo per sé. Scrivere diventa difficile, leggere pressoché impossibile.

E tuttavia, anche fra quattro mura, la vita offre spunti emozionanti; è sempre lì, pronta a regalare quadri esistenziali di sorprendente umanità se l’attraversiamo osservandola, ascoltandola e non ci limitiamo semplicemente a guardarla, a sentirla.

Così, succede che in un momento di pausa l’elettricista di fiducia si sieda al tavolo della cucina un po’ sotto sopra, beva un caffè insieme agli altri, aspetti che se ne vadano e, davanti alla tazzina vuota, inizi a parlare.
Una conoscenza di vecchia data basata su normali contatti di lavoro; da tempo si è passati al tu, ma non è proprio possibile definirsi amici né tantomeno confidenti. Grande stupore quindi quando nella conversazione su argomenti vari e anche banali spunta improvvisamente un “Sai che mi succede?
E lui inizia a raccontare; dell’attività che prosegue non senza fatica, ogni tanto uno stop e poi la ripresa; della famiglia e dei problemi con il figlio adolescente.
Qualche esitazione tra una frase e l’altra; non entra in dettagli, ma s’intuisce una triste storia che riguarda il suo secondogenito, una vicenda che ha scoperto per puro caso e in seguito alla quale si è “trovato costretto” (parole sue) a rivolgersi a un medico. Per sé.

Il racconto è molto breve e sintetico, sufficiente tuttavia a farmi percepire sofferenza, malessere interiore, sentire il pudore del “Sai, mia moglie non sa nulla” e cogliere la vergogna del “tengo le medicine nel magazzino del negozio”.
Io non parlo, non voglio farlo al suo posto; credo che lui desideri solo essere ascoltato nel suo ora, da qualcuno che non conosce il suo prima e non può quindi fare confronti che probabilmente lo imbarazzerebbero e aumenterebbero il suo senso di disagio.
Forse – mi dico – questo è il motivo che lo spinge a nascondere i farmaci; forse vuole schivare indagini e richieste di precisazioni, i vari “non dovresti reagire così”, “so bene cosa provi”, “se sei in questa situazione è perché …” e l’immancabile “mi dispiace”,  forse evitare di mostrarsi nudo nel suo essere diverso da prima.

Scusa lo sfogo” mi dice alzandosi. Abbozzo un sorriso e faccio solo un cenno del capo socchiudendo gli occhi.  Anche un “Figurati!” mi sembra inopportuno.
Raggiunge gli altri che lavorano nella parte opposta della casa.

È il suo ultimo giorno qui da me, ecco forse perché si è lasciato andare…
Cerco una spiegazione mentre depongo le tazzine nel lavello.
Bisogno forse di un ascolto senza pregiudizi? Forse di una presenza occasionale, neutra che lo liberasse dal peso di dover rimanere fedele all’immagine che chi lo conosce ha di lui? Forse da un fastidio simile a quello che si prova quando, presentandosi presso amici con un brufolo sul mento, si è accolti da un “Ma cos’è! Come mai? Non ne hai mai avuti..!” che rovina tutta la serata?
Paragone forse banale, forse calzante, non so – mi dico. Ma penso a quanto sia psicologicamente gravoso vivere nell’idea di dovere sempre essere uguale a se stessi, senza fragilità, senza punti deboli. Forse è la ragione di tante cadute.

Abbiamo un enorme bisogno di essere ascoltati, e già in questo qualcuno forse trova una risposta, da solo; forse riesce a giudicare e valutare, da solo, i suoi problemi in un monologo interiore pronunciato a voce alta. Forse.

Le tazzine sono ormai nella lavastoviglie. Raggiungo il gruppo che lavora di là e con un semplice “A che punto siete?” torna la normalità. Forse un po’ anche per lui. Forse.