di Rina Brundu. Scrivo questo articolo con il cuore pesante, come solamente lo si può avere quando sta male un padre, un fratello, una persona di famiglia, un maestro molto amato, perché tutto questo, e molto di più, è per me don Pietro Vinante. Per me e per tutti i villanovesi. Perché prima di essere stato il parroco di Elini, don Vinante è stato per più di un quarto di secolo il parroco di Villanova Strisaili. Un parroco unico, diverso.
E di quella “diversità” per molti versi io sono pure figlia. Raccontare don Vinante significa raccontare un poco ciò che sono io. Ciò che sono stata. La parte migliore di me. E quindi rivedo quella Villanova mitica della mia infanzia e di cui molto spesso scrivo nei miei post dedicati all’Ogliastra su questo sito. Rivedo quel sacerdote trentino e spilungone, intelligente come pochi, che è sempre stato una vera forza di Dio. Che litigò con quasi tutti in quel modesto villaggio ai piedi della Grande Montagna, senza per questo perdere il rispetto dei più. Perché di tutto si può accusare don Vinante, tranne di non essere un servo di Dio come ci si aspetta che questi debbano essere.
Guardando dentro questo ideale buco della serratura puntato su quel meraviglioso tempo passato, lo vedo poi sulla cima del Gennargentu quando si incaponì a portarvi, via elicottero, una grande croce del Cristo che si potesse vedere dovunque in Sardegna. E lo rivedo armato di maggiore determinazione dopo che il vento abbatté quella croce e lui piantò, una volta ancora. Lo rivedo mentre organizzava la maglieria in paese e portava in Africa migliaia di maglioni e di altri indumenti, mentre organizzava la lotteria, mentre si occupava di tornei sportivi, mentre ci insegnava a cantare, mentre metteva su musiche bellissime che grazie al suo altoparlante animavano ogni momento vissuto tra quelle splendide vallate e lo facevano sentire più vero. Lo rivedo mentre preparava l’amatissima festa di San Basilio, mentre si imbestialiva come una tigre contro chiunque mandasse a monte i suoi progetti, mentre si interessava di meccanica, di fotografia, di microfoni, di bandiere, di costumi, di libri, di sci, di corrispondenza. Mentre mi affidava il mio primo lavoretto: riordinare la sua sterminata biblioteca!
E poi lo risento mentre parlava con quel suo caratteristico accento trentino che noi non riuscivamo a non imitare quando gli rispondevamo, mentre rideva, argentino, mentre urlava entrando in classe nelle gelide giornate invernali: “Finestre aperte, termosifoni accesi, viva l’Italia paga Pantalone!”. Che a scriverlo nell’Italia-ladrona di oggi fa pure ridere, come quando si ride perché non si vuole piangere. Ma soprattutto lo rivedo camminare di passo lungo tutte le strade di Sardegna, intento a fare l’autostop perché – diceva – lui una macchina l’avrebbe comprata solamente quando tutti gli altri sarebbero andati in aereo, mentre i soldi che raccattava dovunque bisognava mandarli nelle missioni africane. E lo rivedo mentre mangiava frutta, anche secca, perché faceva bene alla salute e perché persino in questo caso bisognava risparmiare per i poveri.
E ancora lo ricordo per quello che è ed è sempre stato, ovvero un uomo di intelligenza acutissima, colto come nessun altro uomo-colto che io abbia mai incontrato in vita mia (e non sono stati pochi!), capace come pochi, tanto lontano dall’idea del pretucolo di campagna alla don Abbondio come lo è la luce di una candela da quella di un quasar. Ma ciò che mi preme davvero rimarcare è che diversamente dai tantissimi sacerdoti dediti davvero alla loro missione come lui, don Vinante non è e non è mai stato un santo. Ma, nel particolare contesto, questo viene detto a suo merito. Don Vinante è infatti prima di tutto un uomo, un servo di Dio come direbbe lui, con due balle così, con una forza incredibile, con una Fede straordinaria. Una Fede di quelle che non si incontrano più sulla nostra strada neppure se si campasse milioni di anni. Sarà forse per questo che ricordo benissimo finanche ciascuna delle sue prediche (che pur fuggivo, quando potevo), e in particolare quella in cui rimarcava: “Se pure camminassi su un filo teso su burrone altissimo io non avrei paura perché so che li c’è Dio!”.
Ed io gli credevo! Non ero d’accordo, non sostenevo la sua crociata, la mia più intima essenza raziocinante si ribellava, ma gli credevo. Credevo che lui credesse che lì c’era Dio e mai, mai, neppure per un solo istante, avrei pensato altrimenti. Che le crociate di don Vinante non sono state poche, e alcune senz’altro discutibili, quindi non mi fa neppure meraviglia la modalità con cui L’Unione Sarda sta dando notizia della sua malattia (don Vinante è un sacerdote e un personaggio noto in tutta la Sardegna, e non solo!). Il quotidiano della mia isola parla infatti del prete della censura che è stato colpito da ictus.
Io non so se don Vinante sia o sia stato il prete della censura, io so solamente che lui è, e che è sempre stato, un grande prete; il mio solo prete. Uno con cui sarei pronta a battibeccare anche domani se solo potesse risvegliarsi dal suo sonno per sentirmi. Uno a cui sto scrivendo per ricordargli che è sempre stato un mio grande maestro, un modello da imitare, un esempio di vita, uno di quei rari esseri speciali che si amano proprio perché così diversi da noi, che ci insegnano nella differenza. Uno che si accetta così com’è perché cambiandolo non sarebbe lui e noi si perderebbe nel cambio. Uno per cui queste lacrime copiose che ti scorrono sulle guance mentre scrivi raccontano tutta una vita. O meglio, la sua parte migliore. Forza, don Vinante: resisti!
Featured image, don Vinante sui suoi amatissimi sci e sul suo amato Gennargentu. Questa foto, per quanto preziosa, mi è stata regalata da lui e in quanto tale, a mio avviso, non ha copyright perché non c’è termine che potrebbe essere più lontano dal suo modo di essere.