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Il diritto definisce forza maggiore ogni tipo di evento o energia esterna che, impedendo a un individuo di resistervi, lo costringono ad agire. Questo il titolo dell’ultimo lungometraggio di Ruben Östlund, stella nel firmamento del cinema nordico, che non a caso con quest’opera ha vinto ha vinto il Premio della Giura nella sezione Un certain Regard alla sessantasettesima edizione del Festival di Cannes ed è stato successivamente selezionato per rappresentare la Svezia nella categoria Miglior film Straniero ai Premi Oscar. Gran parte della vicenda è anticipata nella prima magistrale scena, in cui un fotografo si accinge a scattare – e costruire – immagini di felicità di una famiglia in un momento di riposo su un impianto sciistico, dicendo loro come sorridere, toccarsi e porsi in relazione l’uno all’altro quel tanto che basta per dare l’idea di un nucleo sereno. Tomas (Johannes Kuhnke) e la bella moglie Ebba (Lisa Loven Kongsli) decidono di ricavare dall’affollata routine lavorativa, una settimana bianca da trascorrere assieme ai figlioletti in un lussuoso residence nei pressi di un impianto sciistico. La prevedibile tranquillità di una vacanza sanza ‘nfamia e sanza lodo – in cui il padre risulta estraneo alle abitudini dei figli nonchè incapace di stabilire un contatto emotivo con loro, mentre ogni compito è delegato all’occhio attento ma stanco della madre –, è presto sconvolta da una vera e propria valanga che travolge la famiglia nell’atto di consumare un pasto su una terrazza panoramica. Se Ebba si butta sui figli cercando di trarli in salvo, la prima istintiva reazione di Tomas è invece quella di scappare – avendo però a cuore di portare con sé l’i-phone e i guanti –. La coppia, che presto si accorgerà di non essere mai stata così lontana, deciderà di scegliere una versione ufficiale della storia da raccontare agli amici e in segno di pace si stringerà la mano, quasi onorando una tacita liturgia bellica.
Diversamente dell’allegro quadretto borghese che le azioni dei quattro parrebbero suggerire, mentre Tomas e Ebba si troveranno presto a desiderare di trascorrere l’uno del tempo senza l’altro in lunghe passeggiate solitarie sugli scii, i bambini mostreranno di non voler trascorrere tempo coi genitori. Ecclettico e interessante è l’uso della fotografia e del colore. Mentre i vari personaggi, a dispetto delle distanze che li separano, vengono caratterizzati dalla medesima cromia – tutta la famiglia ad esempio indossa un pigiama petrolio –, talvolta un uso della luce quasi zenitale assieme all’alternanza del bianco e del nero, suggerisce la presenza di un vuoto oramai incolmabile.
«Vedevo la valanga, è cresciuta, è diventata enorme e all’improvviso è stato chiaro che non era sotto controllo» affermerà uno dei due coniugi, e la frase non ha certo il solo valore di descrivere l’evento naturale, assumendo anzi significato in relazione allo sprofondare della relazione. Ad aiutare i protagonisti nel lento processo di riconoscimento della noia che guida le loro giornate, guidandoli in un moto per inerzia, saranno altri ospiti del residence: una donna sposata che nonostante la famiglia e i figli ha deciso di non abdicare alla propria libertà sessuale e intellettuale e una giovane coppia appena formatasi e apparentemente stabile nella stabilità del proprio amore. La macchina da presa, per lo più statica, riprende con fermo cinismo l’evoluzione di quella che sarebbe dovuta essere la piacevole vacanza di una famiglia perfetta, indugiando con un certo humor sulle fragilità dei protagonisti, i cui comportamenti, così per bene e così borghesi, finiscono per essere dipinti come ridicoli e grotteschi. Erica Belluzzi
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