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“Forzare le regole dell’euro”: Nomisma e gli errori di una classe dirigente

Creato il 12 settembre 2014 da Albertocapece

IL BRINDISI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA CARLO AZEGLIO CIAMPI CON  IL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA ROMANO PRODI, IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SILVIO BERLUSCONI E IL COMMISSARIO EUROPEO MARIO MONTIMolto liberista, keynesiana per sbaglio, totalmente confusa, ma ferocemente lucida nell’opportunismo più cinico. E’ questo il ritratto della classe dirigente italiana, dagli anni ’80 in poi, che emerge da una fonte insospettabile, la prodiana Nomisma. Naturalmente non si tratta di un atto di accusa esplicito e consapevole che costituirebbe un parricidio nei confronti del proprio nume tutelare, non è nemmeno un’analisi specifica, ma affiora alla superficie senza volere come le antiche pozze di “olio di pietra” che oggi si va mungere chilometri sotto la superficie.

In realtà sono anche poche righe, ma densissime, messe alla fine di una newsletter in cui  gli analisti di Nomisma accusano l’Unione europea di aver completamente fallito il proprio compito perché invece di fare una politica monetaria espansiva  per favorire la domanda aggregata, ha spinto i Paesi “verso una pericolosa trappola di stagnazione e deflazione”. Non è certo una novità e l’unica notizia consiste semmai nel ritardo con cui l’Istituto se ne è accorto o ha trovato il coraggio di dirlo di fronte allo sfascio del Paese. Ma la cosa interessante sono le righe finali che denunciano tutta la fatuità con cui il Paese è stato governato e che vanno ben oltre le sceneggiate del satrapo Berlusconi, gli imbarazzi e le castronerie dei “professori”, la guapperia di Renzi. Si dice infatti che sarebbe “opportuno chiedersi se le norme europee attualmente in vigore non siano da forzare, trattandosi di regole stabilite e sottoscritte quando non si sarebbe mai pensato che il drammatico arretramento della domanda, registratosi negli anni Trenta e amplificato da errori di politica economica, si sarebbe potuto ripetere in termini ancor più gravi. L’esito disgregante di quell’esperienza dovrebbe servire a sollecitare iniziative ben più radicali e consistenti di quelle attualmente in discussione nelle riunioni europee”.

Abituati ad essere sommersi dalle parole non ci facciamo più caso, eppure qui c’è tutta la radice del disastro. Dato che una politica monetaria espansiva non è immaginabile nell’ambito di una divisa comune e di una inestistente unione politica – ragione per la quale l’euro è regolato da trattati e parametri stringenti – qui si dice in sostanza che l’adesione alla moneta unica, voluta fortissimamente da Prodi, patron di Nomisma, fu dovuta alla convinzione che mai ci sarebbe potuta essere una profonda crisi della domanda come negli anni Trenta, dimostrando così una cieca fede in uno dei dogmi fondativi del liberismo. Come si potesse pensare che tutte le politiche messe in atto fin dagli anni ’80 per spezzare gli strumenti della rivendicazione salariale e per favorire la precarietà come strumento di riduzione delle retribuzioni, le svendite di beni e attività, nonché la riduzione del welfare e dunque della spesa pubblica, non sortissero l’effetto di portare al  declino e poi al tonfo della domanda, per me rimane misterioso: ma qui siamo di fronte non alla ragione, ma al catechismo di credenti i quali in fondo pensavano che fosse la diseguaglianza il vero motore dell’economia. Anzi in un esempio folgorante di circolo vizioso l’euro è stato in tutto il continente il pretesto, per attuare più efficacemente queste politiche.

Dunque ci si dice che l’ingresso nell’euro  fu deciso nella convinzione che non potesse esservi una crisi di sistema, ma solo una crisi ciclica che il feed back di mercato avrebbe facilmente riassorbito. Adesso che il dubbio sulle tesi liberiste si è insinuato nelle file  dei devoti, che ci si volge a un’altra religione economica, quella appunto che permise di venir fuori dalla crisi degli anni 30, ecco che si scopre di essere entrati in un meccanismo monetario che non consente misure keynesiane se non in minima misura. Perciò si chiede una forzatura delle regole di Maastricht, come se queste fossero una variabile indipendente rispetto all’euro e come se la richiesta avesse un minimo di realismo di fronte a una Ue ancora più fortemente intenzionata a perseguire sulla stessa strada. Insomma si  mette a fuoco l’errore , ma non si vuole riconoscerlo continuando a pensare che ci sia una via d’uscita nell’ambito dei rapporti esistenti, come se non si sapesse che di fronte alla possibilità di dover pagare i debiti degli altri, i Paesi ricchi sarebbero i primi ad uscire dalla moneta unica.

Così almeno si protesta sperando di non essere individuati come colpevoli e magari imprecando contro il destino cinico e baro.


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