Foto ricordo. Gli anni della vergogna

Creato il 30 settembre 2013 da Giuseppe Lombardo @giuslom
Letta, ultimo atto. Si alza il sipario. Nel clima solenne che caratterizza da sempre i viaggi istituzionali, il capo del governo italiano è in visita negli Stati Uniti. Nonostante le fibrillazioni nella maggioranza, rassicura gli investitori stranieri e gli analisti finanziari, presentando ai mercati l'affidabilità del sistema-paese. Sono stati compiuti grossi sacrifici, spiega, e le forze politiche non hanno alcuna intenzione di sperperare questo patrimonio di risorse. Seguono strette di mano, pose plastiche e tanti abbracci tra i flash dei fotografi: la coesione è la precondizione indispensabile per lo sviluppo.Sul fronte interno, frattanto, il principale alleato non si limita a minacciare una crisi ad orologeria, ma ne progetta la realizzazione nei minimi dettagli, bypassando il vicepremier e i ministri che in sua vece siedono nei dicasteri: raccoglie in Transatlantico 188 firme dei parlamentari, necessarie per rassegnare le dimissioni, ponendo innanzi alla platea degli osservatori stranieri, agenzie di rating incluse, un’implicita mozione di sfiducia. Il presidente della Repubblica apprende la notizia dalla stampa e, imbarazzato, reagisce con un comunicato di rara freddezza. I più sospirano: forse si è svegliato.Titoli di coda. In uno Stato di diritto le sentenze non vanno solo rispettate, vanno eseguite. Una condanna emessa nei confronti di un uomo pubblico equivale pressoché a una scomunica perpetua agli occhi della società civile. Il terzo grado di giudizio dovrebbe essere foriero, almeno in teoria, di una riflessione politica. Gli esponenti di spicco della classe dirigente dovrebbero creare massa critica, dovrebbero convergere sull'esigenza di indurre il malfattore a fare un passo indietro. Esempio: se un leader occidentale viene condannato, putacaso, per frode fiscale, i partner della maggioranza, per senso di responsabilità e per decoro etico, dovrebbero tentare da subito di dargli il benservito; successivamente, constata l’impossibilità di condurre il malvivente a più miti consigli, dovrebbero adottare l'unica strategia possibile, ossia rassegnare loro le dimissioni, onde evitare equivoci e compromessi. Salvaguardare la propria dignità e quella delle istituzioni con un atto solenne non è un’opzione come le altre: talvolta diventa un’esigenza. Ai giorni nostri invece, in questa sorta di romanzo distopico, è il fuorilegge a far tremare la maggioranza, a evidenziare le crepe della grossa coalizione, a decretare all'improvviso lo stato di morte cerebrale dell'intero Esecutivo. Basta un pretesto qualunque, una gabella a caso, pur di invocare il ricorso alle elezioni, la rottura del dialogo, la fine di un percorso comune. Si spacciano i cazzi propri per sontuoso liberalismo, quasi che l’individualismo della cultura occidentale possa essere declinato secondo la formula biblica del “muoia Sansone, con tutti i filistei”.Dietro questa tragedia all’italiana si cela lo sfacelo della decadenza, il degrado sullo sfondo. Una maggioranza connivente, targata Pd, avverte la sindrome di Stoccolma e s’identifica negli interessi del suo carnefice. Imu, Iva, perfino indulto: tutto viene offerto alle fauci del drago. Ma la bulimica fame di salvacondotti ad personam non conosce limiti. I briganti pretendono di essere eroi, non delinquenti. E così non bastano le istruzioni dal Colle, i bignami su come ottenere la grazia: agli occhi del sultano serve un passo in più, l'intero arco costituzionale deve muoversi per lui, deve contestare innanzi alla Consulta una legge approvata pochi mesi prima per impedire la sua decadenza e l'interdizione. Tutto pur di ritardare l'applicazione del diritto. Nell'Italia che va a rotoli non c'è soltanto la sciagurata parabola culturale del berlusconismo; c'è, semmai, l'affermazione inconsistente di una sinistra in crisi d'identità, mansueta e povera d'idee, disposta a ricevere il sostegno di una badante meneghina ancorché cleptomane, pur di sedere nella stanza dei bottoni.G.L.

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