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Fotografare (racconto)

Da Frank_romantico @Combinazione_C

Fotografare (racconto)
“Fa freddo ‘sta sera”
“Io non ho freddo”
“Tu non hai mai freddo”
“Stai tremando…”  
“Potresti abbracciarmi…”
“E’ meglio di no!”
Lui si strinse un po’ di più nel giaccone. Un soffio di vento gli aveva accarezzato la nuca e, sì, aveva tremato, ma solo per un istante. Intanto guardava la distesa d’acqua davanti a se incresparsi e perdersi verso l’orizzonte.
Ad un tratto prese la macchina fotografica e se la portò all’occhio, una mano come una carezza sotto l’obbiettivo, l’altra ferma a sostenere il corpo metallico. Era un moto istintivo per lui, dopo tanti anni. Mise a fuoco, trattenne il respirò e scattò, “click”. Quasi immediatamente staccò la macchina dal viso. L’abbassò, strizzò le palpebre, cercò di mettere a fuoco quello che gli era parso di vedere un attimo prima che l’otturatore si chiudesse.
“Non ti è sembrato di vedere qualcosa, lì?”
“Dove?”
“Lì, vicino la linea dell’orizzonte… lì!”
“Te lo sarai immaginato”
“L’ho visto spuntare dall’acqua”
“Io non ho visto niente”
“Tu non hai guardato”
“Adesso è colpa mia che non ho guardato”
“Ha fatto splash, come un sasso”
“Non avresti mai potuto sentirlo da qui”
Con un moto di stizza lui si alzò e fece due passi in avanti, verso la punta degli scogli. Lei lo guardò ma non aggiunse altro, solo con la punta delle dita sollevò un sassolino e lo gettò noncurante nell’acqua. “Splash”. Lui si voltò a guardarla come se con quel gesto avesse tentato di uccidere il mare. E ci fosse quasi riuscita.
“Ma si può sapere cos’hai?”, le chiese infine tirando fuori una sigaretta dal pacchetto morbido, Camel Light come se piovessero ogni volta che qualcosa non andava per il verso giusto. Non per il suo, perlomeno. Lei alzò gli occhi, per un attimo riuscì a sostenere il suo sguardo, poi le ciglia cominciarono a tremare, le palpebre a farsi pensanti e alla fine cercò respiro volgendosi verso un'altra parte, le luci lontane della città che piangeva magari, o dietro la nebbia che si era alzata leggera, nulla più che un velo. Senza dire niente, come fa sempre la nebbia.
“Sono incinta…”, disse infine in un sussurro. Prese un altro sassolino, questa volta un po’ più grande, e lo gettò con un po’ più di forza dove aveva lanciato il primo. “Splash”.
“Sei incinta!”, ripeté lui con la sigaretta appena accesa e in bilico tra le labbra, tradendo un tremore.
“Sono incinta…”, ripeté lei e lui riprese a guardare l’orizzonte con tanta concentrazione che pareva lo stesse scoprendo per la prima volta.
“Come lo sai?”, disse poi lui in un tono metallico che non gli apparteneva.
“Come lo so? Mi prendi in giro?”, rispose lei risentita.
“Come lo sai?”, insistette lui scalciando tra la ghiaia e sollevando uno sbuffo di polvere giallo ocra che odorava di salsedine.
“Lo so e basta. Va bene come risposta?”, rispose lei.
“Ma io non pensavo sarebbe potuto succedere”, disse ancora lui. Un nuovo tiro alla sigaretta, un nuovo sbuffo di fumo dalle narici bruciate.
“Invece poteva. E’ successo”
“Tu non me lo avevi detto, non mi avevi detto che poteva succedere”
Questa volta aveva gridato. Lui si era voltato verso di lei abbandonando il mare increspato ad una nuova folata di vento e aveva alzato la voce. La sigaretta gli cadde su una scarpa sporcandogliela di cenere.
“Oh, adesso vuoi dire che è colpa mia.”, disse lei con una lacrima che le cominciò a scivolare lungo la guancia sinistra. Una lacrima lunga e brillante su quel volto pallido come un tramonto.
Lui non rispose. Cominciò a guardarsi attorno, prima a destra poi a sinistra, con la macchina fotografica che gli dondolava appesa al collo. Ma erano soli, non c’era nessuno lì vicino e la strada non troppo lontana da dov’erano loro era libera da automobili e passanti. Non c’erano mai auto lì, oltre la loro. Non ne passavano mai.
A qualche chilometro dall’insenatura dove si trovavano le puttane di certo lo avevano sentito, ma non si sarebbero mai spostate per andare a vedere cosa fosse successo, lasciando la litoranea che scivolava veloce verso San Giorgio.
Gli scogli lì attorno erano alti come torri coperte di alghe e come ogni giovedì sera nascondevano i due agli spruzzi della risacca e a qualunque sguardo indiscreto.
“Ma mi stai ascoltando?”, proruppe lei a un tratto, riportandolo alla realtà. I capelli le sobbalzarono, quasi completamente asciutti, per poi ricadere appiccicandosi alle tempie e alla fronte, annodati e sporchi di luna.  
“Cazzo urli, sta zitta!”
“Ma senti chi parla. Senti chi urla!”
“Non ti voglio sentire, ho detto sta zitta”.
Si voltò di nuovo, le spalle curve verso di lei, e sollevò un’altra volta la macchina fotografica portandosela all’occhio. Mirò verso il punto fisso più lontano, una barca di pescatori illuminata dalla luce di una torcia elettrica. Scattò, “click”. Questa volta però non staccò subito l’occhio dalla camera: rimase impassibile con le ciglia incollate al mirino e il busto proteso verso il buio. Ed ecco che lo vide di nuovo, qualcosa che usciva dall’acqua e subito si rituffava. Troppo veloce per capire cosa. Un pesce forse, ma i pesci non potevano essere così grossi, né saltare così in alto.
Lasciò cadere la camera e si grattò una mano, cercò il pacchetto nella tasca e con le dita ancora tremanti lo cacciò fuori. Ancora una volta quel rito, ancora una volta il volto illuminato dall’accendino e le labbra che stringevano il filtro.
“Non avevi smesso di fumare?”, gli chiese lei senza muovere le labbra. Si era fatta più vicina e ora spingeva la spalla contro la gamba di lui.
“Fumo solo quando sono con te”
“Fumi solo quando scatti le tue stupide foto”
“Ti piaceva quando fotografavo”
“Mi piaceva che non piacesse a tua moglie”
“Non parlare di lei”
“E tu non trattarmi come una puttana”
Lui si staccò, quasi fuggì da quella frase lanciatagli contro all’improvviso.
“Come faccio a sapere che è mio?”, chiese poi.
“Vaffanculo…”.
“Come faccio?”.
“Vaffanculo!”, fu lei questa volta ad allontanarsi, muovendosi con un tremito e avvicinandosi agli scogli, pronta a saltar giù.
“E secondo te cosa dovrei fare?”. Questa frase di lui, buttata lì quasi piangendo, la fece fermare. Si girò, lo guardò, spalancò gli occhi.
“Cosa dovrei fare, io?”, riprese lui, “non so nemmeno cosa… cosa… insomma guardati. E poi guarda me. Cosa cazzo dovrebbe nascere da noi due?” e mentre diceva questo ripensò alla cosa che credeva di aver visto spuntare dal mare. Rabbrividì. Tirò dalla Camel che stringeva tra l’indice e il medio e trattenne il fumo nella cavità orale, lo ingoio, lo tossì via.
“Hai ragione”, disse lei spezzando il silenzio.
“Mi dispiace”, disse lui prolungando l’attesa.
“Torna da tua moglie”
"No!"
"Torna da lei, vai via..."
“No…”
“Vai!”
“Mi dispiace”
“Anche a me”
Lui si chinò e coinciò a raccogliere gli avanzi della cena di quella sera: hamburger e birra. Prese la carta oleata e le bottiglie e le mise nella busta di carta, poi rimase così, il volto verso di lei, piegato sulle ginocchia.
“Cosa farai?”
“Non lo so”
“Fa freddo ‘sta sera”
“E’ tardi”
Lei guardò ancora una volta il mare. Quel mare tanto grande che li aveva fatti incontrare. Si accarezzò la pancia. Lui nel frattempo si era sollevato. Fece cadere la cicca per terra, la pestò con la punta dello stivale e la spinse via. Poi disse: “ciao”. Solo “ciao”.
Lei non rispose.
Lui si avviò alla macchina ma a metà strada si fermò, si girò, giusto il tempo di vederla tuffarsi in acqua. Lei. I suoi capelli lunghi e neri si sollevarono un attimo scoprendole le branchie e una scia di tentacoli accarezzò lentamente gli scogli prima di scomparire nell'acqua scura. “Splash”.
Infine la luna illuminò il riverbero dell’acqua, la superficie del mare, il suo lento scivolare verso gli scogli e un'altra cosa buona, persa per sempre.

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