
http://www.stevemccurrymilano.it/
Se avete un qualsiasi genere di barlume di coscienza artistica, vi prego, andateci. La mostra di Steve McCurry a Milano, prorogata fino al 28 febbraio, è qualcosa di sublime ed estremo. A cominciare dalla location: i locali interni elegantissimi, benché quasi tetri, dello splendido Palazzo della Ragione, a due passi dal Duomo. Le foto, numerosissime e quasi accavallate l'una sull'altra, sono appese a dei teli scuri semitrasparenti, pendenti dall'alto, e illuminate da piccoli faretti bianchi che gettano sul pavimento contorni di luce quasi fiabeschi. Si ha come l'impressione, appena si trova il coraggio di togliere gli occhi dalle stupende inquadrature del fotografo americano, che parte dello spettacolo sia proprio lì sotto, sorprendentemente a livello dei piedi.
Camminando tra ritratti di bambini tibetani, pozzi di petrolio in fiamme, occhi di ghiaccio afgani e marmocchi dallo sguardo innocente appesi a kalashnikov più alti di loro, si ha come l'impressione di essere parte integrante dello spettacolo della condizione umana, anziché spettatori passivi e interessanti.Guardando le foto di McCurry si ha come la sensazione che la fotografia, a discapito del suo nome, sia tutto meno che "istantanea". Ogni singolo scatto rappresenta metodo, tecnica, appostamento, attesa, cura maniacale di ogni dettaglio e colore; non solo, per quanto fondamentali, estro e talento.
Mi hanno fatto sorridere, in particolare, alcuni scatti dell'11 settembre. Ho cercato di ricostruire mentalmente la scena, con l'aiuto di Eddie Vedder che, dal mio Ipod, mi allontanava dai commenti degli altri visitatori: il reporter del National Geographic, appena tornato da non so qualche viaggio, si rilassa davanti al pc nel suo studio di Manhattan, appollaiato su chissà quale grattacielo con vista sul World Trade Center. Si sente in qualche modo a casa, lui che è viaggiatore, nomade, vagabondo. Al sicuro, nell'ombelico del mondo occidentale, cantiere di progresso e benessere, dopo aver sfidato per dovere di cronaca chissà quali pericoli. Ad un certo punto il boato più grande. Dalle vetrate giungono le immagini inquietanti di persone che corrono da tutte le parti, sconvolte. Dall'alto appaiono come formiche in fuga dopo che un bambino abbia pestato per scherzo la loro casa. Urla e sconforto, pianti e disperazione. Tutti intorno non sanno che dire e che fare. Ma lui è già lì, sui marciapiedi di una NY appena piombata in una guerra senza saperlo, con la reflex in mano, ad immortalare la scena.
E' un peccato che non mi ricordi più chi fosse quel personaggio di un qualche libro o film che mi ricorda tutto questo. So per certo che si trattava di una bambina, o una ragazza. Fotografava qualunque cosa. Non per mania, tic o passione; per esorcizzare la realtà. Per comprenderla e spiegarla, prima di tutto a se stessi.Forse essere un grande fotografo vuol dire proprio questo.