Dal bordo del mare si vede la Calabria, poche luci basse.
Da questa parte la schiuma
lunghissima
lentissima
del mare bagna la spiaggia ininterrottamente.
Sopra il mare c’è la luna, coi bordi smangiati come una frittella.
Sopra il mare c’è una terrazza con i vasi bianchi spaccati e delle panchine bianche smussate. Delimitata da un muretto di pietre corroso dalla salsedine, dalla salsedine corrosa anche la ringhiera.
Dall’altra parte della strada ci sono palme nane e negozi per casalinghe. Pochi lampioni, rossi, come le lampadine finte dei cartoni. In mezzo macchine. Inutili e climatizzate macchine.
C’è umidità, tutti i contorni sfocati.
Questa è la prima fotografia.
Sul bordo del mare, da questa parte, dovremmo esserci io e te, con le felpe e i giubbotti, perché è il quindici marzo e fa freddo. Non dico noi, dovremmo esserci io e te, sdraiati al contrario, con la testa vicino all’acqua, col rischio di annegare a riva, di bagnarci i capelli, di affondare la faccia nella schiuma lunghissima
lentissima
del mare.
Io terrei le braccia conserte, perché avrei freddo o per non toccarti.
Tu fumeresti. E basta.
Ti guarderei, non mi guarderesti.
Mi parleresti e io starei a sentirti senza risponderti mai.
Staremmo così a prendere freddo, come due stronzi, finché non ci ammaliamo. Finché non ci calmiamo.
Ci stancheremmo presto e lo stesso non vorremo andare.
Ti chiederei perché e mi diresti che non lo sai.
Mi chiederesti secondo te perché, e anche io non saprei risponderti.
Così resteremmo, come due stronzi, vicini ma senza sapere perché, lontani e senza sapere perché.