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Porsi di fronte un film come Found. è veramente difficile per me. Questo perché non capita spesso, ma a volte il cinema mi colpisce così duramente da lasciarmi tramortito. E Found. è uno di quei film che è stato capace di prendermi a schiaffi così forte da subirne ancora gli effetti, dopo giorni. Di fatto a sconvolgermi una volta tanto non è stata la "rappresentazione" quanto il crescendo, l'amplificarsi, il disturbante che si fonde al perturbante e va per accumulo minuto dopo minuto, scena dopo scena, e poi esplode fragorosamente in un finale che davvero è forse il finale più potente che mi sia mai capitato di vedere da anni.
Found. è un film di Scott Schirmer, esordiente nel mondo dei lungometraggi e classico self made man nel mondo del cinema visto che gira, produce, scrive, monta. In questo viaggio si lascia accompagnare da Todd Rigney, autore del romanzo omonimo da cui il film è tratto e co-sceneggiatore. Anno 2012, budget rosicato, atmosfera vintage, stile retrò. Coming of age, ma non è Stand By Me, non c'è nulla di formativo in Found. che, anzi, è l'annientamento dell'idea di crescita. Crescere è brutto, crescere fa male, crescere è traumatico. Lo sa bene Marty, protagonista della storia, ragazzino vittima del bullismo e della vita di provincia, appassionato di horror che un giorno scopre nella borsa da bowling del fratello maggiore Steve la testa di una donna afroamericana. Ma Marty non è Gordie Lachance (il protagonista di Stand By Me, appunto), non è un "prescelto", non possiede un dono. Marty il prodotto di un contesto violento che sfugge alla dura realtà rifugiandosi in un mondo di violenza sintetica chiamato cinema horror.
Perché al cinema lo sai che è tutto finto. Il più insostenibile del gore, lo splatter più atroce è un accorgimento estetico, sono effetti speciali. Il cinema è un sogno in cui sai di stare sognando, quindi è rassicurante. Marty, che è un bravo bambino, lo capisce chiaramente e non sovrappone mai le due cose: guarda i film, disegna la sua graphic novel e intanto i problemi li chiude a chiave in un cassetto. Anzi, in un certo senso la violenza sullo schermo lo ha reso sensibile alla violenza nella quotidianità: non si difende dai bulli perché non sarebbe capace di far male ad una mosca, lo dice egli stesso. Eppure non si può restare bambini in eterno, non si può nascondere costantemente la testa nella sabbia (o davanti uno schermo), bisogna affrontare l'orrore di una realtà che ti fagocita e ti piega. Il momento, per Marty, arriva quando quel confine tra giusto/sbagliato, tra realtà/finzione viene finalmente meno e, in un certo senso, coincide con l'inizio del film.
Suo fratello Steve è un serial killer. Ok, questa scoperta traumatizzerebbe chiunque, ma non Marty che ancora non riesce a comprendere la portata della cosa. Lui piuttosto vede nei comportamenti scostanti del fratello maggiore un'eco di quel che era Steve prima della "trasformazione". L'unico che lo ascolta, l'unico che lo aiuta. L'unico che gli da consigli. Marty lo venera (la passione per l'horror l'ha ereditata da lui) e lo teme, non perché sia un assassino ma perché è il suo fratellone. A dirla tutta Steve non è molto diverso dai protagonisti del fumetto che Marty sta scrivendo, super eroi che uccidono i criminali, ciò che egli stesso vorrebbe fare con i bulli che lo perseguitano ma non può, perché c'è ancora distinzione tra reale e finto. Il problema sorge quando questa distinzione pian piano si assottiglia per poi scomparire: il mondo è violento come e forse più di un film horror. quel che vediamo sullo schermo, per quanto osceno, può essere riprodotto nella realtà e allora non è più divertente, non è più un rifugio, non è più una fantasia. Steve diventa la rappresentazione di questa consapevolezza. Ma non basta.perché l'orrore non è ancora entrato in casa.
Quando succede, è allora che il rifugio non è più tale e non c'è più un posto dove nascondersi. Prima di tutto ci sono gli adulti, i genitori. Quelli che dicono che la violenza è sbagliata e poi la usano, psicologica o fisica che sia. Quelli che non capiscono, che non ci sono. Quelli che non hanno tempo ma hanno segreti, quelli che vorrebbero tu crescessi e poi fanno di tutto perché tu rimanga sempre un bambino. Mi ha terrorizzato constatare quanto in Found. non ci sia un personaggio adulto che sia positivo. Sembra anzi che quando diventi grande qualcosa dentro di te si rompa definitivamente. Steve è la metafora di questa trasformazione. Un adolescente che, entrando nell'età adulta, diventa un serial killer. Che, attraverso i condizionamenti prima di un padre razzista (l'orrore vero che ti entra in casa) e poi dei film horror - che attecchiscono su di lui solo perché ne è predisposto - trova nella violenza e nella follia la risoluzione di ogni problema. Anzi, la follia gli permette di essere sincero fino in fondo e di portare agli estremi quello che nella realtà del film, quel mondo di provincia pigro e svogliato, è condicio sine qua non. A farne le spese sarà Marty, l'unica persona a cui non avrebbe mai fatto del male.
Scott Schirmer parla di tutto questo nell'unico modo possibile, con un'eleganza estrema e ottime trovate (i titoli di testa, ad esempio, o il film nel film) basando la narrazione sul punto di vista del protagonista. Sinceramente non dev'essere stato facile evitare di cadere nell'abusato, nel banale o nel retorico. Io stesso mi sono dovuto ricredere, durante la visione, su alcuni aspetti che mi avevano fatto storcere il naso come l'idea che un horror potesse deviare la mente di una persona, ma alla fine Schirmer risolve il tutto con stile e, soprattutto, coraggio. Ci vuole coraggio infatti nel dirigere un finale come quello di Found.. Ma alla fine è tutto il senso del lavoro a tenerti inchiodato al divano, è l'aria che si respira nel film ad essere davvero malsana. Perché se qualcosa di sbagliato c'è nella realtà qui rappresentata, il regista è riuscito a ritrarla nella sua forma più pura e spaventosa.
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