C’è della magia qui, c’è la capacità di far convivere un ritratto antropologico pieno di uomini e donne dai volti archetipici (quando un semplice primo piano sa dire quello che c’è da sapere) con l’incanto fiabesco, márqueziano, sottolineato da particolari che elevano il racconto come l’immagine di un treno arrugginito, oppure quella di un cimitero inaccessibile che rimarca la netta distanza con la Morte, e a ciò si lega l’elenco dei defunti sul muro della chiesa fermo dal ’76: “ci siamo dimenticati di morire”. Inevitabilmente l’introduzione di Rita nel microcosmo altera gli equilibri, la ragazza diventa una variabile incontrollabile (la danza sfrenata nel buio) dentro ad un sistema codificato, Murat mette in piedi uno scontro ancestrale tra giovinezza e vecchiaia che però non conosce collasso, al contrario si fa crasi, dolcemente, in un confronto fra alterità che con grandiosa nostalgia si infiltrano reciprocamente (d’altronde il finale suggerisce questo), trovano confidenza, sostegno, libertà (la morte a questo punto è il liberarsi dal fardello dei ricordi, mettersi a nudo), sanciscono un nuovo inizio. Le fotografie, motivo portante della pellicola, che Madalena custodisce in casa e che appartengono a gente sconosciuta, sono un mausoleo della reminescenza, custodia di una memoria collettiva, il che appaia Found Memories ad un film come Tabu (2012), due esempi di un cinema che espone la propria modernità volgendo lo sguardo verso il passato, innestandolo di soluzioni visive votate all’integrazione narrativa (qui abbiamo le visioni degli pseudo-dagherottipi di Rita) senza mai sminuire la malinconia dei tempi che furono.
Stupisce l’alta professionalità con cui Júlia Murat, classe ’79, incastona ogni sequenza nel firmamento artistico di chi, seppur senza troppa esperienza sul campo, ha già raggiunto la consapevolezza dei propri mezzi, e i risultati oltre che davanti ai nostri occhi restano impressi nelle corde interiori, quelle che sintonizzandosi sulle frequenze filmiche vibrano di pura e cristallina emozione cinefila. Per chi scrive ci troviamo di fronte ad una versione edulcorata di Japón (2002), nel senso che la prospettiva con cui si guarda alla vita e alla morte possiede una delicatezza struggente, un sapore di rasserenante mestizia, un cortocircuito affettuoso tra la Fine e il Principio per una categoria di cinema in via d’estinzione, salvaguardiamola e facciamola nostra: Historias que so existem quando lembradas è già uno dei film dell’anno.