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Four Fish – Il futuro dell’ultimo cibo selvatico (salmone)

Da Pietroinvernizzi

Paul Greenberg con un salmone - immagine presa da google immaginiRagione e passione si scontrano. La consapevolezza di aver manomesso i fragili equilibri naturali con anni di sfruttamento incondizionato delle risorse naturali e la volontà di fronteggiare qualcosa di ancora selvatico, indomito, convivono e dividono l’animo di chi coniuga scienza e amore per la pesca. In questo passo, liberamente tratto da Four Fish – Il futuro dell’ultimo cibo selvatico di Paul Greenberg (Slow Food Editore, 2012), l’autore racconta bene la tempesta interiore che lo agita durante una battuta al salmone.

Dopo tanti mesi in cui avevo fatto ricerche sui salmoni, in cui avevo osservato altre persone pescare salmoni, in cui avevo fatto confronti su come diversi tipi di salmone di allevamento generano stress sull’ambiente, ne avevo abbastanza. Volevo tornare alle ragioni per cui mi ero interessato al pesce fin dall’inizio. Volevo pescare un salmone.

Trent’anni fa nel Salmon River sarebbe stato impossibile. Come erano spariti dal Connecticut, così i salmoni erano stati eliminati dallo stato di New York già nell’Ottocento. Molti tentativi di reintrodurli nel lago Ontario fallirono miseramente. Gran parte della colpa era dovuta a un mutamento ambientale. Effluenti industriali e agricoli avevano inquinato le acque. L’aringa d’acqua dolce autoctona di cui si cibava il salmone era stata sostituita dall’alosa, un piccolo pesce d’altura che aveva invaso i Grandi Laghi in seguito all’apertura della St. Lawrence Seaway. Grazie alla mancanza di predatori, le popolazioni di alosa crescevano rapidamente e, quando le fioriture delle alghe causavano la deossigenazione stagionale delle acque, morivano in grandi numeri. D’estate, sulle rive del lago Ontario, la puzza era orrenda. La prospettiva di una gita in spiaggia era temuta dai bambini lungo tutte le sponde del lago. Oggi il lago Ontario è diverso, com’è diverso il Salmon River.

Tenendo la mia canna da pesca nella mano sinistra e afferrando con la destra il ramo di un albero per sostenermi, mi tirai su dalla corrente e salii su una roccia, quindi lanciai la lenza. Le foglie autunnali stavano cambiando colore e il fiume era affollato di altri pescatori, tutti vestiti in modo identico, che metodicamente tiravano le mosche a monte e le seguivano con gli occhi fin quando non si posavano sull’acqua. Periodicamente un flusso d’acqua rilasciato dalla diga a sud sospingeva a valle un’ondata di vecchi bicchieri da caffè in styrofoam. Un carrello da supermercato arrugginito si rovesciò nel gorgo vicino a me e vacillò nella corrente, insieme a diverse vecchie mosche e una lenza monofilamentare ingabbiata nella sua griglia metallica.

A prima vista, sembrava una di quelle giornate che i pescatori odiano, una di quelle in cui il numero degli uomini supera di gran lunga quello dei pesci. Tutta l’attività, il tiro della lenza, lo strusciare degli stivali, la legatura e rilegatura dei diversi ami: si tratta di sciocchezze ritualistiche che servono più a impressionare gli altri pescatori che a pigliare pesci. Ma man mano che i miei occhi si adattavano alla luce autunnale e le sagome sotto la superficie dell’acqua diventavano limpide, si palesò una visione che, per me, fu assolutamente commovente.

Il pezzo di alga che ondeggiava nella corrente nei pressi della roccia su cui stavo in piedi

Four Fish - il futuro dell'ultimo cibo selvatico di Paul Greenberg
aveva le sembianze di un animale e non di un vegetale. Si trattava, in realtà, della pinna pettorale sfilacciata di un salmone reale di 30 libbre che oziava nella corrente. Non era dissimile da quello che avevo visto vent’anni prima, proprio nel momento in cui i salmoni selvatici dell’Oregon erano in procinto di estinguersi per sempre. E di colpo la verità del fiume mi fu chiara: vidi che accanto a questo salmone ce n’era un altro, forse la sua compagna, e accanto a lei un altro, e un altro ancora. Il fiume ne era lastricato. Cento pesci a portata di tiro di lenza.

Accanto alla selezione estrema di salmoni condotta nei laboratori, una forma ibrida di selezione naturale/innaturale è all’opera qui nel Salmon River. Quelli ai miei piedi, al riparo dalla corrente, erano salmoni reali di varietà Donaldson, ottenuti in una struttura vicino a Seattle, nello Stato di Washington, da una vasta gamma di varietà diverse. Nei loro habitat nativi, al largo della costa pacifica nordoccidentale, parecchie di queste varietà sono ora estinte. La varietà Donaldson è dunque una specie di messaggio genetico di geni, perduti e ritrovati, combinati in modo da rendere il Salmon River nuovamente abitabile dai salmoni. In giro per il mondo, mentre i genetisti del salmone cercano di rendere i salmoni sempre più efficienti e adatti alle vasche, inizia a emergere una sorta di ingegneria al rovescio grazie alla quale i promotori del salmone selvatico applicano metodi più scientifici per rendere i salmoni allevati in vasca più adatti al ritorno allo stato naturale.

[…] Meno di cinquant’anni fa, il Tyne era il più degradato tra i fiumi da salmone di tutto il Regno Unito. La sua vicinanza alla città industriale di Newcastle, insieme alla diga costruita sul fiume per creare il vivaio di Kielder Water, contribuì alla completa distruzione della popolazione dei salmoni. Nemmeno un salmone tornò al Tyne nel 1959. Il fiume sarebbe ancora in queste condizioni se non fosse stato per un biologo e pescatore sportivo di nome Peter Gray, che decise di procedere contro le conclusioni popolari nelle discussioni sul salmone e sulla genetica. «Se torniamo indietro al periodo appena successivo all’ultima glaciazione,» mi scrisse Gray «tutti i nostri fiumi da salmoni dovevano essere ricolonizzati. L’integrità genetica doveva ripartire da zero». Diecimila-ventimila anni fa, i fiumi da salmone furono azzerati in tutta la loro portata dai ghiacciai. In qualche modo, partendo da una piccola roccaforte genetica, furono in grado di rivendicare il proprio regno. Gray conviene sul fatto che esista una componente metagenetica che va rispettata. I salmoni della costa occidentale scozzese “girano a destra” per dirigersi a nord verso la Groenlandia, mentre quelli della costa orientale “girano a sinistra”. Mettere un salmone della costa occidentale in un fiume della costa orientale otterrebbe di spedirlo a fare una vacanza mortale in Francia. Ma se si rispettano queste metacomponenti, allora si può riportare il salmone alla vitalità.

[…] A trent’anni dall’avvio dei suoi sforzi, Gray ha portato il fiume al punto in cui più di 20.000 salmoni adulti ci tornano ogni anno per deporre le uova. I salmoni sono intrinsecamente fragili, ma forse anche intrinsecamente resilienti. La maggior parte dei fiumi da salmone furono rovinati in un momento in cui non sapevamo limitare il nostro impatto. Ma ora sappiamo farlo. E se riusciremo a ripulire i fiumi e a ricreare condizioni favorevoli ai salmoni come quelle che si riscontravano in precedenza, forse nel corso della nostra vita rivedremo dei salmoni selvatici. Nel Salmon River nello stato di New York, dove mi trovavo, constatai coi miei occhi che tutto ciò era possibile. I salmoni Donaldson furono originariamente immessi negli anni Ottanta nel lago Ontario e nel Salmon River non come cibo ne per sport, ma piuttosto per provare ad affrontare il problema della massa puzzolente di alose che si riversavano sulle spiagge locali ogni estate. I pesci Donaldson fecero proprio quello. Ma crebbero grandi, belli e potenti, e i pescatori volevano catturarli per mangiarli.

L’unico problema era che il lago Ontario aveva sofferto quasi un secolo di inquinamento industriale, con inquinanti che andavano da metalli pesanti persistenti, come il cromo, agli elementi usati per fabbricare il defogliante Agente Arancio, impiegato durante la guerra del Vietnam. I pesci erano pericolosamente tossici. Si ordinò al Dipartimento di pesca e caccia di smettere d’immettere salmoni reali Donaldson nel Salmon River per via del rischio per la salute che potevano rappresentare per i pescatori, se questi avessero consumato il proprio pescato. Ma anche dopoché il Dipartimento smise di immetterli, successe un fatto insolito. I Donaldson reali iniziarono a fecondare naturalmente. Erano diventati autoctoni.

Il purista che è in me, il pescatore, il ricercatore di pesci davvero selvatici, voleva indietreggiare per il disgusto. Cos’erano questi salmoni ai miei piedi? Cosa ci facevano dei salmoni del Pacifico in un habitat che doveva essere dominato da pesci di varietà atlantica? A cosa servivano se non potevano essere mangiati? Mentre tutto questo mi frullava per la testa, uno di loro, un magnifico animale marrone dorato, lungo quattro piedi e largo quasi un piede all’altezza della spalla, saltò fuori dall’acqua e afferrò l’amo, tirandomi giù dalla roccia con la forza della sua corsa. Era la forza di una cosa selvatica. Una cosa che mi trascinò a monte, lontano dai miei deprimenti pensieri sui pesci in via di estinzione, che mi diceva che i salmoni non avevano finito di esercitare un ruolo nella mia vita. Ci sarebbe voluto un aggiustamento mentale, ma sembrava scorretto negare la presenza di questo salmone, un pesce indubbiamente potente e bello, in un fiume che vent’anni prima ne era stato privo. «Chi se ne frega» mi dissi nel momento in cui la lenza si liberava, stridendo, dal mulinello e il mio cuore palpitava e inseguivo il grosso pesce per il fiume. Dopotutto, il Salmon River deve pur ospitare salmoni.



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