Mark (Channing Tatum) è un lottatore che non sembra avere nient’altro che il suo sport a riempirgli le giornate. Le sequenze iniziali, quasi completamente mute, danno un’idea di quanto siano ristretti i confini del suo mondo. Un giorno accetta l’offerta del milionario John Du Pont (Steve Carell), erede della nobile famiglia omonima, che gli propone di unirsi al Team Foxcatcher: una squadra che egli stesso ha formato e allena per le Olimpiadi di Seoul. Contando di onorare il nome dell’America e dare un valore alla sua solitudine, Mark accetta, sperando di uscire dal cono d’ombra della fama del fratello Dave (Mark Ruffalo). Mark vorrebbe portarlo con sé ma Dave non vuole trasferire la famiglia e rinunciare alle responsabilità che ha, lì dov’è.
Il tema è identico al film precedente di Bennet Miller, L’arte di vincere, com’è affine il periodo storico (gli anni ’80) ben caratterizzato dalle scelte fotografiche. Il tono e l’epilogo, però, sono nettamente più cupi e malinconici e il film riesce a inserirsi con successo nei canoni del genere senza apparire ingessato: un romanzo di formazione che si serve dello sport per mostrare la crescita, o il tentativo fallito, di un ragazzo e del suo coach ma con un paio di sorprese che vivacizzano le oltre due ore di proiezione Ne citeremo solo una, funzionale al giudizio sul film: il momento in cui Dupont, che promette al suo fiore all’occhiello di farlo crescere in autonomia e liberarlo dall’etichetta di “fratello minore di Dave Schultz”, gli offre della cocaina.
Questo è quello che spesso succede quando due uomini soli, che non sono in pace con se stessi, s’incontrano: rimangono soli e magari il più forte trasmette all’altro i vizi che crede di dominare, rendendolo ancora più debole ed eterodiretto. Un bicchiere di troppo, una sniffata di troppo, la soggezione a un’autorità che non si discute. Mark contro Dave, prima; contro John, poi, e lo stesso John contro il fantasma à la Psycho di sua madre. E poi una risalita velocissima e altrettanto pericolosa, che finisce per toglierti anche quel poco che avevi prima di cambiare rotta.
Foxcatcher è un film che fa della retorica americana il suo perno: una critica ragionata a un mondo, quello del wrestling, specchio di tanti altri, di un paese intero in cui arrivare in cima (si legga: dimostrare agli altri di essere arrivati in cima) è più importante di tutti i sacrifici che s’impongono agli altri, troppo ingenui per accorgersi della fregatura. È l’altra faccia dell’Arte di vincere: l’arte di autodistruggersi, o almeno di rendersi ancora più mediocri di quanto non si fosse già.
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