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Il dossier accusatorio dedicato ad "American Sniper" e più in generale, la definizione di cinema americano inteso come strumento di propaganda governativa è destinata a ulteriori riflessioni per via di un film, "Foxcatcher", diretto da Bennet Miller, che, neanche a farlo apposta, si pone in netto contrasto con la tesi sopra espressa. Quella di Miller infatti, è la storia vera dei fratelli Schultz, campioni olimpici di lotta greco romana, e del loro mentore, il miliardario John Du Pont, deciso a promuovere i valori della nazione americana attraverso le imprese dei due campioni sportivi, ingaggiati all'interno di un programma che prevedeva tra l'altro lacostruzione di un centro di allenamento nazionale all'interno della tenuta del ricco magnate.
Siccome la relazione tra i tre uomini è divenuta materia da cronaca nera, per i drammatici risvolti che hanno messo fine al celebrato sodalizio, non c'è dubbio che "Foxcatcher" appartenga a quella categoria di lungometraggi di matrice noir, che esplorano con entomologa abnegazione gli abissi più oscuri dell'animo umano. Certamente la definizione potrebbe risultare un pò stretta ad una vicenda umana che parte da un binomio sportivo – il talento atletico e le imprese deidue lottatori unite alla passione di Du Pont per il wrestling - e si sviluppa come il resoconto di un amicizia impossibile tra il rampollo di una delle famiglie più in vista del paese e due ragazzi semplici e modesti. Una disfunzione cinematografica acuita dalla presenza nella parte dei ruoli principali di tre attori come Tatum Channing, Steve Carell e Mark Ruffalo, costretti a stravolgere la loro immagine - anche estetica- per aderire alle caratteristiche fisiche e umorali dei rispettivi personaggi. Se poi aggiungiamo il fatto che la regia di Miller, classica e rigorosa, fa di tutto per raffreddare i picchi emotivi di una materia incandescente e ambigua, soprattutto nei risvolti che trasformarono l'ammirazione di Du Pont nei confronti di Mark Schultzin una sorta di infatuazione, allora ci troviamo di fronte a un prodotto hollywoodiano anomalo, sia dal punto di vista del divismo attoriale (praticamente assente), che sotto il profilo della gestione drammaturgia;
quest’ultima avulsa da qualsiasi forma di indulgenza che non sia quella di far emergere il "danno" emotivo dalle dinamiche dei corpi. Un richiamo, quello alla fisicità dei personaggi, evocato dall'evidenza del dettaglio fisionomico, accentuato dal make up di Carell/Dupont, come pure dalla mandibola sporgente e dall'espressione perennemente assente di Tatum/Mark;ma soprattutto dal continuo rifarsi ad una dialettica corporale, espressa attraverso un contatto - volontario e accidentale - che è allo stesso tempo una tecnica di combattimento e la manifestazione di una latente ferinità . Se la parabola umana proposta da "Foxcatcher" è di per sé un oggetto filmico, non c'è dubbio che la scelta di mettere in scena una vicenda umana in cui i valori della bandiera americana si confondono con la dimensione patologica di chi se ne fa portatore (Du Pont), diventa la rappresentazione di American Dream triste e funesta. A testimonianza di un cinema che, nonostante tutto, è ancora in grado di mettere in discussione lo stato delle cose.
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