La necessità di "aggiornare" un settore più o meno vasto della società deve sempre coincidere con il bisogno di affrontare una vicenda in maniera veloce ed urgente? Il praticare (o imporre, a seconda dei punti di vista) un cambiamento immane può essere potenzialmente penalizzante in tempi di crisi?
Quanto tempo impiega un cambiamento eseguito "via legge" a tradursi in un mutamento (o miglioramento, anche se può sembrare difficile) reale per la società? Quanti decreti attuativi servono per rendere pienamente operativo un testo di legge evocante riforme "strutturali"?
A prescindere dalle moltissime domande possibili, il contesto italiano sembra essersi energicamente fossilizzato su due differenti punti di vista: chi pratica le "riforme" e chi non le vuole. E' in corso un duello, fra statici e (presunti) dinamici.
L'importante è andare; non importa dove, ma (illudere di) andare il più veloce possibile. Tutto questo grazie a delle cosiddette "riforme".
Chi le fa può dirsi progressista, chi è scettico o frenato (per lungamente spiegabili motivi) è accusabile di non meglio specificato conservatorismo.
Il primo e più evidente paradosso riguarda le ragioni che spingono alla realizzazione delle stesse: si fanno principalmente per far progredire il tessuto socio-economico di un Paese al palo come l'Italia? Oppure si conducono in porto per dimostrare di aver fatto non meglio specificati "compiti a casa"?
Compiti a casa che, a più riprese, vengono prima invocati e poi smentiti; discorso a parte meriterebbe una certa "fetta" politica che, non paga di un precedente periodo di conduzione "imbarazzante", ora si propone come salvatrice della patria e dei problemi che la attanagliano.
A parte questi punti, sembra essere sempre più vicina l'inaugurazione della (cosiddetta) riforma del lavoro, pietosamente sloganizzata come Jobs Act.
I punti salienti del provvedimento redatto si articolano nel seguito:
- ammortizzatori sociali e strumenti di sostegno a chi perde l'occupazione;
- riordino delle normative in materia di servizi per il lavoro e politiche attive, con esplicito richiamo a meccanismi di incentivo per l'occupazione;
- semplificazione di procedure ed adempimenti a carico di cittadini ed imprese;
- andamento, aggiustamento e ridefinizione delle tipologie contrattuali;
- forme di tutela della maternità e definizione di metodi per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
- tempi di modalità ed adozione dei decreti delegati.
Esulando dal punto paradossale per cui il dibattito (di ogni tipo, anche politico) sembra essersi fossilizzato sull'ennesima revisione dell'articolo 18, è lecito provare a fare chiarezza sugli obiettivi finali a cui la presente "riforma" vorrebbe portare il Paese Italia.
La necessità di rispondere a questo delicato punto non può prescindere, nell'ordine, da una serie di punti di vista ineliminabili: discussione tanto consapevole quanto completa nelle analisi dello status quo, argomentazioni efficaci e svincolate da (ir)rigidi(ti) diktat di Partito, ferma volontà di tutelare il sistema interno. L'ultimo punto è fondamentale in quanto, con il senno di poi, potrebbe avere davvero poco senso (in chiave futuribile) riformare radicalmente il lavoro per il mero obiettivo di svolgere un semplice "compito a casa".
L'ultimo ed emblematico caso di una riforma condotta in porto con l'obiettivo di affrontare un'urgenza è recente e, forse, non ancora sfuggito alla memoria cort(issim)a di una certa parte di Italia: la riforma delle pensioni, svolta sotto al Governo tecnico presieduto da Mario Monti.
Radicalizzando un conflitto e risolvendolo con modalità simili a quelle di un nodo gordiano, si sono creati nei (teoricamente) tutelati disagi a cui poi la politica e la tecnica hanno dovuto porre nel seguito rimedi sia economicamente che socialmente pesanti: il caso dei cosiddetti "esodati", appunto.
Il riformare con celerità non pare dunque essere la via migliore per (ri)strutturare un sistema e fornire nuove regole ai tutelati, dunque; non è la modalità di azione più adatta per una lunghissima serie di motivi e ragioni: dalla società all'economia, dagli squilibri sociali alla lentezza esecutivo-burocratica di certi adempimenti, dall'inadeguatezza a raccogliere un cambiamento all'impellente necessità di mettere un tampone alle piaghe sociali attualmente in corso. La vera difficoltà non è farla, una (presunta) riforma; l'ostacolo più grande è condurla in porto in maniera non demagogica.
Il contesto italiano promuove, su questo fronte, una lunga serie di opzioni non favorevoli all'accezione precedentemente dichiarata.
A prescindere dal contesto in cui il lavoro dovrebbe muoversi, è opportuno interrogarsi sul risultato a cui questa riforma vorrebbe condurre l'Italia.
Risuonano esplicative, sempre ammesso che sappiano semplificare in maniera costruttiva la complessità di un argomento così potente, alcune passate dichiarazioni attribuite al Presidente del Consiglio:
"[...] Matteo Renzi [...] indica la Germania come un «modello, non un nostro nemico». Se alle parole seguiranno i fatti, la necessità sarà di «rendere il nostro mercato del lavoro come quello tedesco». [...]" (Fonte: espresso.repubblica.it)
Indicando lo stato tedesco come un modello a cui tendere, viene spontaneo chiedersi quanto sia utile rendere il mercato del lavoro italiano il più vicino possibile a quello strutturato dalla Germania. A prescindere dalla natura del modello in questione, l'applicazione di questa riforma strutturale in terra italica potrebbe tradursi in un semplice copia&incolla di quanto è stato impostato negli anni precedenti nello Stato tedesco.
Potrebbe bastare davvero questo a risolvere i problemi esistenti, non risolti in tempo utili ed ormai (percepiti come) incancreniti?
Esulando per motivi di brevità dall'affrontare questioni relative alla natura dettagliata del mercato tedesco, è possibile richiamare un quadro sintetico scrivendo quanto di seguito riportato:
"[...] In Italia il tasso di disoccupazione e' aumentato tra il 2007 e il 2013 dal 6,1% al 12,2% [...] mentre in Germania e' diminuito nello stesso periodo dall'8,7% al 5,3% [...]. La diminuzione della disoccupazione tedesca e' stata possibile grazie alla riforma Hartz [...] che [...] diede vita [...] a una serie di provvedimenti sul mercato del lavoro nella Germania [...].
In quattro provvedimenti, la Germania ha rilanciato il suo welfare attraverso sussidi di disoccupazione universali [...] purche' si dimostri di essere in ricerca attiva di lavoro [...]. Oltre a buoni per la formazione, job center e agenzie interinali, Hartz ha introdotto i famosi [...] 'Minijob', contratti di lavoro precari, poco tassati, senza diritto a pensione ne' assicurazione sanitaria; i Midjob, contratti atipici a 400 euro massimi; i finanziamenti a microimprese autonome e un maggior sostegno per gli over-50 che perdono il lavoro. Infine, nella 'Hartz IV', e' stato previsto un reddito di cittadinanza anche a chi non trova lavoro dopo aver completato gli studi [...]. Nel mercato quindi convivono l'alta flessibilita' del lavoro [...] con il modello di welfare nord-europeo [...] ma con regole molto stringenti [...]" (Fonte: ansa.it - Economia)
Basterebbe fare una fotocopia del modello tedesco per risolvere la crisi italiana, dunque?
Esulando dal contesto di apprezzamenti e critiche fatte alla riforma del lavoro applicata nello Stato tedesco, è lecito interrogarsi su quali siano le cosiddette condizioni al contorno per i due Paesi. Italia e Germania non sembrano essere infatti assimilabili l'una all'altra, per una lunghissima serie di motivi. Una parte di questi sono indicati, più o meno esplicitamente, in un'intervista de L'Espresso fatta al docente Romano Benini:
"[...] Il modello [tedesco] ha funzionato. I dati sono chiari: nel 2003 l’Italia era alla pari mentre le loro scelte sono state più efficaci.
Paghiamo gli investimenti non effettuati a favore dello sviluppo umano, il cui indice è calcolato dall’Onu tenendo conto di lavoro, sanità, formazione, welfare, per misurare capacità e autonomia delle persone. In dieci anni la Germania è passata dal 22esimo al quinto posto al mondo, mentre il nostro Paese è sceso dal 17esimo al 25esimo. Per questo siamo fermi e nel reddito complessivo cresce il peso delle rendite rispetto al lavoro. [...]
[la Germania] [...] patria delle grandi imprese statali, ha elaborato modelli federalisti.
La ricetta sarebbe servita anche a noi, visto che abbiamo un tessuto produttivo centrato sulle piccole imprese. Invece abbiamo un contratto nazionale inteso come una specie di bibbia che non si può cambiare. [...]
Se Renzi vuole fare qualcosa deve spostare la discussione dall’articolo 18 al mercato del lavoro che non funziona, [...] restituire allo Stato la responsabilità del lavoro. Per capire quanto i tedeschi ci credono, basta un confronto sulle cifre: loro investono in politiche per l’impiego 45 miliardi di euro all’ anno, dei quali più della metà vanno a sostenere servizi e strumenti per reinserire il disoccupato. Mentre in casa nostra spendiamo 22 miliardi di indennità di disoccupazione, 5 miliardi in politiche attive e solo 500 milioni in servizi concreti. [...]
Per riprendere il treno della crescita il governo [...] deve introdurre norme più chiare e precise, scardinare queste sistemi scellerati e poco efficienti e coordinarsi con le Regioni per decidere chi fa che cosa. Senza queste piccole rivoluzioni la rottamazione rimarrà solo uno slogan. [...]"
Un'analisi seria dovrebbe presupporre, dunque, la necessità di approfondire le ragioni che hanno condotto l'Italia a smarrire la strada giusta e perdere così tanto terreno di fronte a Stati che hanno avuto maggiori certezze nel prendere decisioni tanto impopolari quanto urgenti.
Condizionale d'obbligo, visto il tenore delle discussioni attuali e degli infiniti slogan che hanno ridotto il dibattito ad una sterile contrapposizione tra fazioni riformiste e conservatrici. Senza una concertazione adeguata ed un'analisi [comprensiva di fact checking] dei dati al contorno nessuna riforma dovrebbe essere realizzabile in tempi brevi. Condizionale d'obbligo, ancora una volta.
E' veramente la Germania il solo Stato a cui l'Italia può ambire? Il primo passo strutturale, in questo senso, dovrebbe essere quello di abbattere gli squilibri e le differenze macroeconomiche che hanno permesso alla Germania di rendere efficace una riforma come quella in oggetto.
In altre parole, pertanto, si dovrebbero dirottare risorse ingenti su nuovi capitoli di spesa in tempi relativamente brevi.
Sarebbe possibile fare questo, in un momento storico nel quale le casse sono (per limiti anche auto-imposti e conseguiti da vergognose classi dirigenti) in larga parte (s)vuot(at)e? La risposta a questa domanda è tanto scontata da non dover essere neppure scritta.
Sotto questo aspetto, pertanto, emerge un tema delle riforme ancora più delicato da realizzare nelle sue componenti strutturali: preconizzare un #cambiaverso grazie a provvedimenti immediati rischia di sfociare nel ridicolo, per scriverla in breve.
Sempre ammesso che la soglia del patetico non sia già stata superata e/o prevaricata da coloro che oggi invocano un "cambiamento violento".
Qualunque esso sia, appunto. Annullando ogni sorta di voce scettico-critica o dibattito finalizzato al miglioramento.
Italia come Germania, dunque? In altre parole, è anche possibile porsi un'altra domanda: possono esserci altri Paesi da "imitare", per l'Italia?
E' possibile ambire a nuove forme di riforma? Un cambiamento può anche essere strutturato ed articolato, non solamente copiato.
E' su questo fronte che si muove un'analisi redatta oggi da Il Corriere della Sera, intitolata appunto "Lavoro, i modelli europei (e qualche dubbio)".
Andando oltre a ridicoli e raffazzonati slogan, è necessario analizzare in maniera approfondita la realtà per strutturare un modello di riforma capace di realizzare miglioramenti strutturali.
I fini dell'articolo in questione sono tanto paradossali quanto esplicativi di una necessità che, ad oggi, non pare trovare una collocazione positiva nel dibattito corrente:
"[...] Per la quantità di giuslavoristi e di sindacalisti che vantiamo in Parlamento, per il peso che la cultura del lavoro ha sempre avuto nel dibattito culturale e per i protagonisti che abbiamo storicamente espresso l’Italia dovrebbe avere come dotazione un sistema modello per quello che riguarda [...] la regolazione del lavoro. E invece no. [...] le querelle politiche romane si nutrono dei richiami a questa o quella esperienza straniera, spesso citati a caso come avviene nel tritacarne delle dichiarazioni giornaliere.
E allora con l’aiuto di due tra i principali esperti italiani, l’ex ministro Tiziano Treu e il giuslavorista Michele Tiraboschi, abbiamo provato a individuare i tratti [...] di quattro modelli (danese, tedesco, spagnolo e inglese), che cosa ci servirebbe importare e che cosa invece è da sconsigliare. L’impressione finale è che non esista un abito su misura da comprare e indossare al volo, siamo condannati a fare zapping ovvero a scegliere in questa o quella pratica singole soluzioni da copiare. E da inserire in un impianto politico-culturale che, dobbiamo dircelo, fatica a recepire le novità. [...]"
(Fonte: nuvola.corriere.it)
Il punto più interessante sembra essere, pertanto, quello di attingere a più modelli (ritenuti) virtuosi valutando al meglio possibile difficoltà e/o meccanismi strutturali caratteristici dello Stato italiano. Esulando dall'affrontare i termini specifici dell'articolo in questione, è implicito scrivere che dovrebbe essere necessario non banalizzare un dibattito. Più di tutto, appunto.
Sarebbe opportuno definire nei dettagli potenziali pro e contro di una situazione tanto complessa, al fine di poter concorrere al definire un cambiamento tanto urgente quanto strutturale e desiderato per il Paese intero. Evitare di riformare per caso, sull'onda del momento.
O di un "cambiamento violento", appunto. Che potrebbe altrettanto violentemente produrre danni irreparabili.
Per saperne di più:
"Il Governo e il Jobs Act", ilpost.it
(http://www.ilpost.it/2014/09/19/lavoro-legge-delega-jobs-act-artiolo-18/)
Bozza del "Jobs Act", senato.it
(http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/759870/index.html)
"Lavoro: il modello tedesco, cosa è e perché piace a tutti", ansa.it
(http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2014/09/03/lavoro-il-modello-tedesco-cosa-e-e-perche-piace-a-tutti-_a10a976d-ffcd-439b-8691-e4525e809948.html)
"Lavoro: per Renzi "la Germania è un modello" Ma il job act sembra andare in altra direzione", L'Espresso
(http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/09/02/news/per-inseguire-il-modello-tedesco-puntare-sulla-formazione-1.178463)
"Lavoro, il modello tedesco tutto flessibilità e mini job da 450euro", La Stampa
(http://www.lastampa.it/2014/09/02/italia/politica/il-modello-tedesco-tutto-flessibilit-e-mini-job-da-euro-7747hSXk5FDC6zqOWYYoOP/pagina.html)
"Lavoro, i modelli europei (e qualche dubbio)", nuvola.corriere.it
(http://nuvola.corriere.it/2014/09/23/i-modelli-europei-e-qualche-dubbio/)