Sul mio profilo Facebook ho dichiarato di essermi addormentata a un certo punto durante la visione di The Hateful Eight, il nuovo attesissimo film di Quentin Tarantino, e ho creduto bastasse a dare un’idea di ciò che pensavo del film. Come tutte le volte in cui agisco d’istinto, però, il giorno dopo mi sono ritrovata a ricredermi e a considerare assolutamente insufficienti 20 minuti di dormiveglia in un cinema pienissimo e con una settimana di lavoro faticosa alla spalle per giudicare l’ultimo lavoro di uno dei registi che amo di più. E allora proviamo a ragionarci su e a capire cosa ci è piaciuto e cosa no di The Hateful Eight.
Titolo: The Hateful Eight
Regia: Quentin Tarantino
Anno: 2015
Paese: USA
Cast: Kurt Russell, Samuel L. Jackson,
Tim Roth, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Michael Madsen
La storia per farla breve è quella del cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e della bandita Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), in viaggio verso Red Rock dove Ruth si aspetta di poter intascare una taglia di 10.000 dollari per la consegna di Daisy. Lungo la strada incontrano due uomini: il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex soldato dell’Unione ormai anche lui famoso cacciatore di taglie, e Chris Mannix (Walton Goggins), soldato rinnegato del sud che sostiene di essere diretto a Red Rock per essere nominato sceriffo della città. I quattro, in compagnia del cocchiere O.B., giungono alla Locanda di Minnie per ripararsi da una terribile tempesta di neve, ma nella locanda non troveranno la proprietaria bensì quattro sconosciuti che sembrano nascondere qualcosa, innescando immediatamente rivalità e scontri sempre più violenti che porteranno a galla, infine, tutta la verità sui personaggi coinvolti.
La prima parola che mi viene in mente pensando a The Hateful Eight è “staticità”, non necessariamente con un’accezione negativa. Il nuovo film di Tarantino dura tre ore che scorrono lente, molto lente, in due luoghi precisi: l’interno della diligenza che sta portando Ruth e soci verso Red Rock e, successivamente, la locanda di Minnie dove si concentra quasi tutta l’azione. L’intera situazione ricorda un po’ un libro di Agatha Christie, il delitto che avviene in una stanza chiusa e il mistero circoscritto tra un numero molto ristretto di personaggi, e con una tale struttura le dinamiche non fanno che privilegiare un dialogo dal flusso continuo e quasi interrotto, durante il quale i personaggi si presentano, mostrano i legami e le relazioni che li accompagnano, svelano inganni e mettono in evidenza incongruenze e ambiguità. Quasi tutte le prime due ore del film scorrono così e non mi vergogno ad ammettere che è proprio a questo punto che mi sono addormentata. Gli spiegoni non entusiasmano nessuno e per un Samuel L. Jackson in splendida forma (come sempre quando diretto da Quentin), che riesce a strappare qualche risata più di una volta, ci sono una serie di attori bravissimi (si vedano Russel e Tim Roth) ma che non arrivano mai a toccare l’apice. Il risultato è una lunga serie di dialoghi, frammentati qui e là da qualche pistolettata e altri gesti di violenza gratuita e deliberata – nonché scene volutamente forti come quella della fellatio che Warren racconta al vecchio colonello prima che i due passino alle pistole – che perdono di mordente di minuto in minuto e che finiscono per non essere più un aiuto allo spettatore per comprendere le dinamiche tra i personaggi e i retroscena delle loro storie, ma un focolare d’ansia verso quello che si spera prima o poi succeda e sul quale ci sono grandi aspettative. E poi infine accade. E dal giallo si passa all’horror più splatter.
La parte più elettrizzante di The Hateful Eight è un accavallarsi di scene sanguinolente, un spirale di violenza davanti alla quale si rimane inorriditi eppure piacevolmente meravigliati, dove non ci sono vincitori e vinti, ma dove ognuno è al contempo cacciatore e preda, in uno scontro senza alcuna regola se non quella di far fuori l’altro prima che l’altro faccia fuori te, dal quale non si salverà nessuno. Tutto quello che si vedrà da questo momento in poi godrà di un estetica quasi teatrale e volutamente fumettosa, dove niente è lasciato al caso (una cura nella realizzazione che ancora una volta dimostra l’animo da appassionato di Tarantino prima ancora di quello da regista) e dove la gioca da padrone una fotografia eccellente, morbida e fluida, perfetta nell’inquadratura e nella focalizzazione, con tocchi di puro lirismo in diversi momenti della pellicola. Da amante del cinema qual è, Tarantino torna al western dopo Django Unchained e ne ribalta nuovamente gli stilemi, aggiungendo ciò che per lui è il cinema, quello che ama e che trova imprescindibile in un film (le battute memorabili, i personaggi istrionici, l’estetica voluttuosamente fine a se stessa). Infine, decide di sfruttare il contesto tipico del genere e le sue connotazioni storiche e sociali per inserire un discorso più ampio che parla alla situazione attuale. Mai i discorsi sulla Guerra di Secessione americana sono apparsi così interessanti come in questa occasione, soprattutto quando ci si accorge che la violenza di cui si parla non è più quella di una guerra civile avvenuta due secoli fa, ma quella che gli Stati Uniti vivono ancora oggi. Non è un caso che The Hateful Eight sia considerato il film più politico del regista.
Insomma, ci sono tutti gli elementi per parlare di un film ottimo e per spingervi ad accorrere al cinema a vederlo. E non mi sognerei mai di invitarvi a fare il contrario. Andate e godetevi l’esperienza cinema che Tarantino vuole regalarvi, ne vale sempre la pena e, ragazzi, stiamo comunque parlando di Quentin.
Eppure.
Con The Hateful Eight torna prepotente l’idea che Quentin Tarantino sia finito in quel circolo vizioso chiamato autoreferenzialità. La cura messa nella realizzazione del film regala una bellezza artificiosa e ripetitiva, tutto sembra ridursi a uno splendido e divertente esercizio di stile, bellissimo da guardare e di sicuro di grande impatto, ma che non regala più niente di nuovo allo spettatore. Un certo gusto per se stessi e il riciclare stili e registri appaiono dunque evidenti e, sebbene tutto ciò regali all’intera pellicola un equilibrio e una grazia impeccabili, l’impressione finale è quella di ritrovarsi di fronte a qualcosa di già visto e di cui forse non sentivano nemmeno più la necessità. L’effetto straniamento è allora dietro l’angolo: The Hateful Eight è un film talmente incentrato sulla sua estetica, scrittura e regia da non lasciare allo spettatore alcuna possibilità di calarsi al suo interno. O, semplicemente, di emozionarsi.
Avevo intuito già tutto proprio in quei 20 minuti di sonno? Chi lo sa. Ma questo non mi impedisce di invitarvi ad armarvi di pazienza (3 ore sono comunque tante), fare magari un pisolino prima e poi correre al cinema. The Hateful Eight è un film che può divertire come disturbare, stimolare oppure indignare, ma che di sicuro non vi lascerà indifferenti.