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Fragola legge: L’invenzione della madre di Marco Peano

Da Strawberry @SabyFrag

Fragola legge: L’invenzione della madre di Marco Peano
L’invenzione della madre di Marco Peano è stato probabilmente una delle scoperte e sorprese dei primi mesi del 2015. Una storia forte, segnata dal coraggio di raccontarla; una prosa esordiente, nuova, eppure già consapevole e navigata; un romanzo delicato e  intenso al contempo, dove le parole del narratore, attraverso espedienti narrativi interessanti, capaci di sintetizzare altri linguaggi come quello cinematografico,  procurano emozioni contrastanti nel lettore, come una stretta allo stomaco che ti attanaglia fino all’ultima pagina, che fa male, risulta fastidiosa, per poi scoprire che era ciò di cui avevi bisogno.
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Titolo: L’invenzione della madre
Autore: Marco Peano
Anno: 2015
Editore: Minimum Fax
Pagine: 280
ISBN 9788875216337
 
 
 
La madre sarebbe tornata. Dopo più di un mese in ospedale, tutto a casa era pronto per accoglierla: Mattia e suo padre avevano curato ogni dettaglio. Era martedì 1° febbraio 2005 e l’aria era fredda, ma c’era il sole. Ogni cosa sembrava leggera.
L’invenzione della madre è la storia di Mattia e della sua famiglia. La storia di una malattia che è una condanna e un dolore che non si risana. Una storia di relazioni familiari e rapporti umani, di vite, progetti, speranze e disillusioni, visti alla luce di un male che ne ribalta di continuo la prospettiva e la direzione. Ma è soprattutto la storia di un amore, forse quello più vero e profondo, che lega un figlio alla propria madre, chiamato a sostenere il protagonista in una sfida difficile e ingiusta, fino a quell’assenza che non potrà mai essere colmata, attorno alla quale sarà necessario ricostruire e reinventare un nuovo modo di vivere ed essere nel mondo.
Leggere L’invenzione della madre è come avere accanto Mattia, il protagonista del romanzo, che in maniera pacata ma attenta ti racconta la storia di una famiglia alle prese con un male che ne ridisegna i confini, le relazioni  i pensieri dei singoli membri. Riviviamo così i momenti della malattia della madre attraverso gli occhi del figlio: le speranze di guarigione dopo i primi interventi per rimuovere ciò che nuoce al corpo della donna, l’illusione di una nuova normalità, la schiacciante disillusione data dal peggioramento fino alla dolorosa accettazione di una fine che è destinata a compiersi. Nel raccontare la sua storia, Mattia lo fa nel modo che conosce meglio, preciso, meticoloso, attento a non tralasciare nessun dettaglio che possa aiutare il lettore a comprendere il suo smarrimento, il suo dolore sordo e solitario, il suo sentirsi come bloccato in un’esistenza che forse non è vita ma è la sua vita. Attraverso un linguaggio cinematografico, così vicino alla grande passione di Mattia, ogni brano è una scena, ogni ricordo un flashback, ogni descrizione un piano sequenza, espedienti che contribuiscono a creare un senso di distacco e straniamento in chi legge e a diffondere il senso di alienazione, stallo e confusione vissuto dal protagonista. Ma ciò che spicca su tutto è il lento ma deciso emergere di un legame, quello che unisce Mattia a sua madre, un legame all’origine di tutto, inclusa quell’esistenza sospesa nel tempo di un inverno continuo e nello spazio di una stanza (che sia quella di un ospedale o la piccola dependance nel giardino della loro casa) di cui il protagonista sembra non poterne fare meno e nella quale, in maniera sofferta ma irresistibile, veniamo trascinati.
Le parole, a partire da adesso, vengono rimodellate per un nuovo uso.
A eccezione del protagonista, nessun personaggio ha un nome proprio e le persone che gravitano attorno a Mattia vengono semplicemente appellate con il loro ruolo: la ragazza di Mattia, la nonna, il padre, la madre. Una scelta che può apparire inizialmente come il desiderio di allontanare il lettore e di lasciare contorni vaghi attorno alla vicenda, ma che in realtà obbedisce al desiderio del narratore, intento a ricordare e raccontare, di ridefinire contorni e legami, spogliandoli del superfluo e lasciandone evidente l’essenza, i tratti distintivi che realmente li contrassegnano. E così, se la fidanzata è soprattutto una figura che si materializza in una macchina che gira per il paese e in sms stantii e sempre uguali, il padre un fantasma che si aggira per casa e un grumo di dubbi e domande irrisolte condensate in un biglietto crudele da parte di “un amico”, la madre viene raccontata attraverso la sua malattia ma, soprattutto, attraverso il suo corpo. L’attenzione al corpo, alla sua corruzione dovuta alla malattia, è forse uno dei tratti più importanti di L’invenzione della madre, l’elemento che più di tutti simboleggia e da un senso al rapporto che c’è tra madre e figlio. Non solo, ma è il mezzo con cui Mattia riesce ad esprimere al meglio l’amore che prova per sua madre, amore che si riversa in tutto il suo racconto, un continuo lavoro di memoria e inventiva, dove la presenza fisica della madre, la cura che il figlio ha del suo corpo, la dedizione alle sue condizione, ne disegna la geografia e i confini.
Più tardi, Mattia prepara sua madre per la notte. La distende con cura sul letto e la lava, la pulisce, la cambia. Poi quando ha finito la bacia, restituendole uno delle migliaia di baci della buonanotte che quand’era bambino lei gli ha dato.
Ne deriva un rapporto simbiotico, inglobante, dove non si riconosce dove finisca l’uno e finisca l’altro, racchiudendo la vita di Mattia all’interno di confini be precisi, fatti di ricordi passati e felici, un presente di medicine e orari in cui somministrarle, silenzi, dottori che dicono sempre la loro, attese negli ospedali, veglie nella propria casa, il mattino in videoteca, la notte al capezzale della madre. E sebbene tutto questo testimoni un amore puro e incondizionato, il rapporto di Mattia si fa sempre più unilaterale, man mano che ci rendiamo conto che è il figlio ad averne bisogno, a sentire la necessità di un’esistenza che sia uno scudo e al contempo una campana di vetro capace di cristallizzare il momento. Alla naturale e più che comprensibile paura della perdita si aggiunge anche la paura di crescere, di andare avanti, di superare quell’esistenza ormai ferma ad anni prima, che appare ripetersi stancamente giorno dopo giorno, ma che Mattia accetta e di cui ne è grato perché è l’unica in cui lei continua ad esistere. Ma la vita va avanti, arriva il momento di crescere e quello dolorosissimo di dire addio. La morte della madre, momento che sembra essere la fine del mondo così Mattia lo conosce, cede infine il passo alla vita: Mattia riscopre le sue passioni e i suoi desideri, torna ad accarezzare un progetto che sembrava ormai lontano, rivede le sue relazioni, riscopre pian piano che il mondo ha continuato a girare e a cambiare, come quella ragazza seduta alla panchina che passavano le stagioni ed era sempre lì intenta a baciare e poi, ad un tratto, se n’era andata anche lei chissà dove. Mattia prende in mano le redini della sua vita e si appresta a proseguire lungo la strada che lo aspetta. Ma dimenticare non solo non è possibile ma non è ciò che il protagonista desidera, ed è proprio in questo momento, nella riappropriazione di sé e nella realizzazione che ciò che sta vivendo non è che l’ennesimo e ultimo dono che una madre può fare al proprio figlio, che Mattia è pronto a ricordare e reinventare, se stesso e la propria storia, ma soprattutto reinventare la madre del titolo, cercando di trattenerla con sé anche in quel dopo senza lei, immortalandola in un ricordo che duri tutta la vita, in un racconto che è un atto d’amore di cui noi lettori non siamo che gli ultimi destinatari.
Un giorno, forse, potrà dire quella frase che dicono i registi: Sto girando un film. Gli piace quel gerundio, perché è un verbo che si contraddice all’evidenza: in quel preciso attimo quei registi sono intervistati, stanno facendo altro, non stanno girando un film. È come quando affermi: Sto leggendo un libro molto interessante, e lo dici stando in piedi alla fermata dell’autobus con le mani in tasca. Sono verbi in cui passa la vita, in mezzo alle azioni soffia l’alito delle cose che accadono, le pagine che leggi si riempiono d’aria e di pensieri, le immagini che filmi si gonfiano di azioni e di parole.
Marco Peano ci regala una storia dura e coraggioso, nato da un’esperienza palesemente autobiografica e che i più di noi considerano decisamente privata, mentre per lui diventa non solo una soluzione alla necessità di trattenere un dolore che non si è ancora pronti a lasciare, ma anche opportunità per liberare la propria scrittura e darle finalmente una forma. Un racconto che risulterà sgradevole ma bello allo stesso tempo, disturbante e meravigliosamente straziante, per il suo essere un racconto per certi versi “egoista” – privo di una moralità che molto probabilmente ne avrebbe svilito la natura –,  nel mettere in luce tutti quegli atteggiamenti vigliacchi e meschini scatenati da situazioni come quella vissuta da Mattia e proprio per questo assolutamente comprensibili e nei quali è possibile identificarsi e darne una piena giustificazione, senza però mancare di emozionare il lettore e di fornirgli scene di grande tenerezza e commozione. Il tutto attraverso uno stile decisamente contemporaneo, capace di elaborare il tutto e dare una struttura consapevole e ben organizzata alla narrazione, la conferma di un’opera prima notevole. Una lettura complessa, a cui bisogna essere pronti e dimostrare una certa pazienza, ma che, infine, risulterà difficile da dimenticare.
E tutto insieme, quel suono dà forma alla parola più docile e più forte che lui abbia mai pronunciato e mai pronuncerà: Mamma.

L'autore
Fragola legge: L’invenzione della madre di Marco Peano
Marco Peano è nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. L'invenzione della madre è il suo primo romanzo.

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