Esco di casa, come al solito, di corsa.
Mi chiudo la porta alle spalle e, come ogni mattina, un attimo dopo ho il sospetto di aver dimenticato qualcosa.
Rovisto nella borsa scendendo le scale: mannaggia ‘ste borse, grandi o piccole che siano hanno il potere di ingoiare qualsiasi cosa.
Mi dirigo verso la fermata dell’autobus: tasto il cellulare, le chiavi di casa, gli occhiali…ok c’è tutto, posso rilassarmi. Arrivo alla pensilina; il display, come al solito, non funziona: 01 gennaio 2001, sì vabbè!
Fa freddo, non mi va di aspettare, meglio camminare, almeno mi riscaldo.
Quando sono a metà tra una fermata e l’altra masochisticamente mi giro: eccolo!
Non mi resta che fare il gioco di Pollyanna: ci sarà pure un lato positivo nell’aver perso l’autobus, anche se oggi ho una fretta dannata.
Sì, l’ho trovato! E’ sempre lo stesso ma è sempre valido: cammino, mi muovo, consumo calorie; fa bene alla circolazione ed alla linea.
Arrivo alla fermata successiva: dall’angolo della strada vedo apparire un altro bus che fa per me.
Attendo diligentemente che la gente scenda, dalla porta adibita alla salita, e poi salgo. Si libera un posto: che bello mi siedo. Ho il computer che pesa, almeno lo poggio sulle ginocchia. Solo ora mi accorgo che una cosa l’ho dimenticata: il libro, mio inseparabile compagno di viaggio. Che peccato: sono ad un punto cruciale!
Poco male. Da quando ho rinunciato alla macchina per andare al lavoro ho imparato a tenermi compagnia immaginando le vite degli altri, attraverso gli sguardi, i gesti, l’abbigliamento di chi mi circonda.
Comincio dalla signora seduta di fronte: avrà una sessantina d’anni, occhi bassi, abito nero, con la mano sinistra si tiene stretta la borsa; magari ha paura degli scippi e, da come è vestita, si capisce che, la pur piccola somma che porta con sé, per lei deve essere un piccolo tesoro; con la mano destra giocherella con la catenina che porta al collo.
Intravedo una medaglietta con la foto di un ragazzo giovane. Sarà un figlio scomparso prematuramente. La signora la stringe, la accarezza, sospira, sicuramente sta pensando a lui. Mi chiedo come sia morto, se la sua gioventù sia stata stroncata da una crudele malattia o da un incidente.
E’ atroce. Come possa una mamma sopravvivere a tanto dolore e convivere con esso giorno dopo giorno è un mistero. Per qualche secondo il dolore di quella mamma diventa il mio dolore e me ne sento avvolta.
Giro lo sguardo di pochi gradi. Davanti a me due ragazzine di 14-15 anni lottano con degli zaini pesantissimi, spostandoli di qua e di là tentando inutilmente di non intralciare il corridoio. Una è magra, carina, occhioni grandi ed espressivi appena appena truccati; indossa un jeans attillato ed una maglietta che lascia intravedere un po’ di pancia. Tremo solo a guardarla io che sono freddolosa ma, si sa, a quell’età, non c’è sacrificio che tenga per apparire. E’ consapevole della sua bellezza. L’amica è grassa, sciatta, ha uno sguardo inespressivo; sotto al maglione lungo e informe, che non basta a nascondere un corpo senza grazia, si intravedono le gambe: grosse e tozze. Non ci vuole una laurea in psicologia per capire la sofferenza che tracima da quell’anima. Eppure ha un bel viso. Sento arrivare dal cuore un’onda di tenerezza: quanto vorrei farle comprendere che ha delle enormi potenzialità.
Basterebbe una dieta adeguata e tante iniezioni di fiducia per far uscire il cigno dal brutto anatroccolo. Purtroppo ora non può capirlo e si rintana nella sua sofferenza dove si consola mangiando cibi che non la saziano.
Questi pensieri mi accompagnano fino alla mia fermata: corro verso la funicolare ed entro un secondo prima che si chiuda la porta.
Solo per un attimo osservo la signora seduta accanto a me: prende uno specchietto dalla borsa e controlla il trucco. Indossa una pelliccia (rabbrividisco, io sono vegetariana e le pellicce amo vederle solo addosso ai loro legittimi proprietari).
Ha labbra a canotto lucide e rosse, zigomi da criceto e collo rugoso: chissà quanto ha speso per ridursi in quel modo! Deve essere di quelle che hanno un solo amico: lo specchio. Più che amico, un tiranno, un padrone. Mi fa un po’ pena. Deve essere stata una ragazza molto bella e non accetta il tempo che inesorabilmente passa su tutto e che, su tutto, stende la sua ombra. Rifletto sui miei quasi cinquant’anni e sulla nuova sensibilità che mi hanno regalato e ne sono felice!
La signora ogni tanto, mentre picchietta sull’accuratissimo trucco per sfumarlo, mi guarda di sott’occhio: chissà cosa pensa di me che non sono truccata, che porto stivali senza tacco e che indosso un comodissimo piumino! Forse anch’io le faccio pena.
Ma sì, in fondo il mondo è bello perché è vario!
Arriva la signora che chiede l’elemosina e, in ogni carrozza, ripete la solita tiritera. Si trascina dietro, su e giù dal Vomero a via Toledo, per tutta la giornata, una bella bambina, annoiata e rassegnata.
Chissà che abisso di povertà e di soprusi si porta dentro questa donna; chissà cosa diventerà questa bambina dagli occhi tristi e se la sua strada è già segnata e non potrà che essere una mendicante.
Siamo arrivati. La funicolare spalanca le sue porte e vomita il suo carico umano che si riversa e si disperde per via Toledo: frammenti di vite che, per cinque minuti, si sono incrociati!
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