Camminiamo in una bolla d’acqua.
È così che non sentiamo la pelle, ma un cielo greve di toppe tra le mani strette sull’ombrello.
Come possono i tuoi pensieri crescere nei miei, la vicinanza dentro la paura?
Dimenticare è vivere, il più delle volte.
Alla fine del tempo il tuo nome è una cosa, una materia che recupero dal fondo delle crepe. Un oggetto di tessuto di cappotto o di pietra acciottolata di salita, un reperto da una strada scoperchiata dell’Europa. Il suono si spacca nella luce di una vita non trascorsa, di fiume troppo presto sotterrato. Alla fine del tempo c’è una piana e si torna piccoli dai pozzi con il sangue nella tasca come un fiore.
***
/il fiume nella piana parla di se stesso/
Ho questa carne scomposta in molte vite.
Zoppico quasi fermo sull’ossame
che a strati rende forte la mia terra.
Torrenti e il suono delle rane
le ombre raggrinzite dei rottami
sul segreto d’erba, sasso, zolla vuote.
Dentro lamine di rame avanzo
mi soffio sul telaio degli attrezzi.
La natura del terreno che si flette
nel rotolio dei pesci, il caglio
dei rifiuti e dei metalli.
Voi del fiume vedete il tratto
di un essere incessante, ripetuto –
gli anni rimestati, indifferenti
nel solco primigenio.
Voi non chiedete all’acqua se ha dolore
perché lei sempre ricompone il corpo
inghiotte, si risana, non trattiene
un volto o un alfabeto troppo a lungo.
Ed è intessuta a fondo, si strizza
dalle erbacce come gocciolio di lume.
Mi scrollano i bagnanti dalle gambe
dove l’airone vola via dal nido
sospeso in brevi specchi nel pulviscolo
bevuto dalle labbra nelle mani.
E quando in superficie rivedete
un filo che su un altro si ricuce
tremate – l’acqua ha un braccio, un occhio cabo
sul vostro vasto viso vi diviene.
A rivoli, segmenti, fossi ombrosi
dentro le porte chiuse delle strade –
a cumuli strappati di fogliame
a lenza improvvisate di canale
a crani di ratti fracassati.
L’animale scannato, la carogna
dentro i teschi l’argilla che s’annera
io tutto, tutto prendo e spingo in basso
che mi s’impietri
in me poi rifluisca
e faccia pace con le terre umane.
Quanto a lungo nell’acqua sosterete?
È ferita lo spacco dove cresco
e sono molta luce unita al fango,
forza della pianta, riflesso,
passo del ritorno.
Da dove vengo io? Dove m’interro
tra i vostri corpi sento un grido
che non avete, ancora, dimenticato.
Da dove vengo, dove straripo
dove vi tengo
con l’ansia del bene.
Nelle vostre città di ponti e mura
e cielo vetroso che si affaccia
sul mio limo bollente nell’arsura
nel tanfo ricoperto sotto il sole
dagli animali rossi d’iniezione –
e lento, io sempre troppo lento
m’incrosto, mi libero, discendo.
Intaglio, avvengo, in superficie
risplendo. Spurgo del mondo.
***
/nella pietra è una madre che bisbiglia/
Voi riconoscete certo un suono
sedendo nella roccia attraversata
il sangue come scava la sorgente
e rende la sua pena a questa gioia.
Voi tutti che dormite abbeverati.
e riconoscerete nelle gocce
il timbro mormorante dei perduti.
I sogni hanno questo di rumore
vi aprono piano piano nella mente.
Vena. Rigagnolo. Frescura. Ferro
che conduce fuori, canto argentino
dei pesci. Voi che avete sete.
E state sotto il getto della fonte
le bocche come quelle dei bambini.
Le vostre bocche senza la memoria
la storia frantumata sulle labbra.
Vi custodiamo il sonno e la saliva
sgorgandovi dall’iride in un lago.
Ardono nei capelli delle fate
i monti scanalati fino al prato.
Portateci nel tremolio del fiato. Tornate.
[Francesca Matteoni, Acquabuia, Nino Aragno Editore, 2014]