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Francesco Attolini al Museo della Follia

Creato il 20 agosto 2012 da Roberto Milani

Francesco Attolini è oramai una realtà consolidata, in Italia ed all'estero. Non c'è da aggiungere altro...
Francesco Attolini al Museo della Follia
Francesco Attolini al Museo della Follia
Self portraits of my insanity.
L’autofiction per immagini, dall’io al mondo.
Autofiction è il termine con cui solitamente si indica l’ultimo nato dei generi letterari, dopo il romanzo storico, realistico, di fantascienza, psicologico… . A tenerlo a battesimo è stato lo scrittore e critico francese Serge Doubrovsky, nel suo romanzo del 1977, Fils. Questo non esclude che esempi di autofiction siano presenti anche in testi anteriori, ma di certo il genere è stato teorizzato solo allora, e da allora è stato assunto più o meno consapevolmente come cifra d’uno scrivere ambivalente, oscillante tra l’autoriferimento del sé e l’interpretazione filtrata d’una realtà, che non esisterebbe senza un io a guardarla e a interpretarla. A rigore, all’origine dell’autofiction v’è un patto contraddittorio, un triplice ossimoro dell’identità: chi scrive, ovvero l’autore, è anche narratore e protagonista sulla scena. In Italia, hanno lavorato a questo genere letterario, tra gli altri,Walter Siti, Tiziano Scarpa, Giuseppe Genna, Antonio Moresco, Francesco Pecoraro, Emanuele Trevi, l’Aldo Nove de La vita oscena.
Un’autofiction per immagini non è stata tuttavia così ostinatamente indagata come dal videoartista barese Francesco Attolini, premiato in Italia e all’estero, e da qualche anno di stanza a San Pietroburgo. Il lavoro di Attolini sull’autoritratto e su un sorprendente e inedito auto-mondo, ha preso le mosse dalla personale presso la Galleria San Lorenzo di Milano, ove era stata allestita la mostra Io sono tutte le persone che ho incontrato, e da lì la ricerca e la tecnica dell’artista, formatosi a Bruxelles, hanno raggiunto la Russia, inclusa Mosca (fino alla Biennale), per tornare in Italia dall’ingresso principale del Padiglione Italia all’Arsenale di Venezia nel 2011.
I video selfportrait di Attolini non hanno affatto come tema la figura dell’artista, è questo è già di per sé indice d’una novità non di poco conto: com’è possibile un autoritratto senza che vi venga proiettata l’immagine di colui che esegue l’autoritratto stesso? Attolini, d’altra parte, prende sul serio l’elemento identitario del fare arte – a San Pietroburgo è tra gli estensori del manifesto del significativismo – e per lui identità e significato si danno in un rapporto dialettico, mai cristallizzato, di costante passaggio tra l’esterno e l’interno.
Il self del portrait di Attolini è ab origine estroflesso, la sua interiorità è già da sempre esteriorizzata negli sguardi, nei volti, nei gesti degli altri: io sono tutte le persone che ho incontrato. Ecco dunque che diventa possibile una autofiction in cui il sé dell’artista paradossalmente non figuri sullo schermo, e questo, tuttavia, non perché egli sia invisibile come un demiurgo onnisciente, bensì perché lui è già lì, sotto gli occhi di tutti, ma in altra forma, con altri sembianti.
In tal modo Attolini sfonda dal lato del soggetto quello sperimentalismo a cui l’arte e le letteratura sono avvezzi da decenni, e che Italo Calvino chiamava «il mare dell’oggettività». Qui abbiamo sì un sé abnorme che occupa per intero l’immagine, eppure sarebbe scorretto parlare di narcisismo autoreferenziale dell’artista, poiché questi diviene se stesso solamente nell’incontro con un’ulteriorità di significato, con un’altra coscienza, con un altro volto, che non sono decisamente i suoi.
All’artista, semmai, è data la possibilità d’intervenire ex post sulla resa delle immagini in movimento, modificandone la grana, rallentandone o accelerandone il dinamismo, agendo in sostanza sul montaggio, come accade nelle opere cinematografiche vere e proprie. Egli, come l’hegeliana nottola di Minerva che giunge sul fare della sera, a cose fatte, a identità giocate, ha il compito di apprendere nel pensiero – con la tecnica dello strumento – ciò che è accaduto, quel che si è dato.
L’opera d’arte, come diceva Martin Heidegger – al pari del linguaggio, secondo l’ermeneutica di Hans Georg Gadamer – non è qualcosa di cui propriamente l’uomo può disporre a suo piacimento. Un aspetto tecnico, produttivo, sicuramente c’è, ma anch’esso è governato dal darsi dell’opera stessa, al di là delle intenzioni di chi la vuole, la desidera, s’illude di crearla.
Attolini di questo è consapevole, poiché lavora sull’identità e sa bene che essa non è manipolabile a piacimento, all’infinito. Se ci si rapporta all’identità, se ne è piuttosto posseduti, anziché esserne i possessori. Un’identità si abita, si vive, si attraversa, la si può certamente anche elaborare, ma le traiettorie dei riconoscimenti e dei disvelamenti reciproci è incatturabile, non è mai interamente una prerogativa del soggetto che va alla ricerca di sé.
Ecco, allora, che il selfportrait si fa selfworld: il discorso dell’io sull’io è ipso facto discorso del mondo sul mondo, rincorsa di un altrove, fuoriuscita dal chiuso del tabernacolo identitario, ad-ventura culturale. Già Aristotele, d’altra parte, si chiedeva se, tolta l’anima, potesse darsi il mondo. Che senso avrebbe, anzi, di quale tipo di esistenza godrebbe la realtà, se non fosse possibile a qualcuno di farne l’esperienza?
Secondo Kant, e per certi versi anche secondo la più fosca autofiction letteraria italiana, l’esperienza del mondo pone l’io, a un certo punto, di fronte a un buco nero, a una cosa in sé indecifrabile, a un perturbante indistinto in cui non può esserci gioia, né sentimento, ma solo mistero, enigma dell’inquietudine. Questi tratti sono del tutto assenti nel lavoro di Attolini, per il quale la vicenda identitaria, il suo carattere avventuroso e sorprendente, sono oggetto d’entusiasmo e non di timore, di scoperta e non d’effrazione.
Anche da questo punto di vista, la videoarte dell’esule italiano a Pietroburgo è anomala: un gesto, il suo, singolarmente felice, tanto negli esiti quanto nel trasporto soggettivo. Una promessa, dunque, e un atto di fiducia nei confronti dell’altro che io sono. (Testo di Andrea Sartori)
Matera. Vittorio Sgarbi ha accompagnato i giornalisti e le tv lungo il percorso del museo, illustrando le opere esposte nelle varie sale dedicate al tema della follia.Ospite d’eccezione l’attore e regista lucano Rocco Papaleo che il critico ha invitato nei giorni scorsi durante la premiazione del San Fele d’Oro., insieme Marco Vallora, critico d’arte de La Stampa, Giuseppe Roveredo, poeta e scrittore, Guido Barlozzetti, giornalista di Rai 1, intervenuti nel corso della conferenza di presentazione svoltasi il 18 agosto 2012 presso il Convicinio di Sant'Antonio e avrà inizio alle ore 19:30. La mostra curata da Sgarbi resterà aperta fino al 30 settembre 2012.
Approfondimenti:
La Fondazione Sgarbi, dopo il Museo della Mafia, inaugurato a Salemi nel 2010 alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e riprodotto in occasione della 54° Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia, ha realizzato il Museo della Follia a Matera, città candidata al titolo di Capitale Europea della Cultura nel 2019.
Il Museo si articola in sezioni:
Tutti i Santi - Le sculture di Cesare Inzerillo: pazienti, dottori e infermieri, distinguibili solo dai dettagli dell’abbigliamento, ridotti a mummie, uniti dalla improba lotta contro la sofferenza e la morte;
La griglia - Fotografie, dipinti e neon: novanta ritratti di pazienti selezionati tra le diverse cartelle cliniche negli ex manicomi d’Italia compongono una griglia di oltre 12 metri dove un neon luminoso, seguendo il contorno di ciascun ritratto, dona luce e rumore ai pensieri di ciascun volto;
Sala dei Ricordi - Oggetti abbandonati: decine e decine di teche contengono libri di letteratura in lingua originale che hanno trattato il tema della follia nel corso dei secoli, farmaci ritrovati nei manicomi, effetti personali dei pazienti, giocattoli e disegni dal passato inquietante;
Franco Basaglia: su gentile concessione di Rai Teche, la proiezione dei video: «Linea Diretta - Discussione su “Legge 180” » e «X Day - I grandi della Scienza “Franco Basaglia”»;
O.P.G.: grazie al contributo del Senatore Francesco Marino, sarà proiettato un altro video-denuncia sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari realizzato dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sull’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale – Senato della Repubblica.
Mostra sul tema della Follia con gli artisti: Mimmo Centonze, Grazia Cucco, Gino Sandri, Carlo Zinelli, Raimondo Lorenzetti, Francesco Attolini, Agostino Arrivabene, Fabrizio Sclocchini, Gaetano Giuffrè, Giordano Morganti, Lorenzo Alessandri, Vincenzo Baldini, Roberta Fossati, Marilena Manzella, Gaspare Palazzolo e Sandro Bettin.


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