Francesco Iannone - Poesie della fame e della sete

Da Ellisse
Libretto leggero, questo qui di Francesco Iannone (Poesie della fame e della sete, Ladolfi Editore 2011), come sottolinea del resto nella sua breve introduzione (che però sottotraccia dice più di quanto non appaia) Gabriella Sica  usando così tante volte la parola "lieto", e i suoi sodali "lieve" e "leggero". Libro di una fame leggera, di una sete leggera, intese entrambe come "fame e sete di verità" (sempre Sica), ma che forse assomigliano di più a uno "stupore" molto giovane (Iannone è del 1985) di fronte a un mondo che sembra appena creato, popolato fittamente di uccelli e di altre scoperte ("Poco dopo un muretto di tufo / la sorpresa di arance grosse e tonde") che lasciano l'autore altrettanto spesso "lieto e contento" delle sue notazioni, o meglio denotazioni. A volte ci si imbatte in versi così disarmanti che devono essere accreditati per forza di un notevole coraggio (" Gesù mio, fa in modo / che dalla pioggia si salvino gli ulivi / che il vento si plachi e più non faccia / male agli aranci e agli abeti / e non spezzi la schiena ai ciliegi / a primavera tanto generosi di fiori"), mentre nel contempo generano il dubbio che l'autore non abbia ancora davvero realizzato come vanno le cose in questo piccolo mondo moderno, certo al crepuscolo ma tutt'altro che crepuscolare. Forse è proprio questa "ingenuità" (sia detto in senso buono, fresco), questo trovare ovunque contentezza e gioia e speranza che genera una sua attrattiva e una certa piacevolezza di lettura (e non dubito che riscuota successi), ma dietro l'osservazione della natura, dietro i cani, gli insetti, i vecchi contenti non si intravede ancora il dubbio, la domanda, la rivelazione  epifanica che possono abitare oltre la facciata delle cose, oltre la loro  mera "estensione" nel tempo e nello spazio. In questo senso gli autori citati negli exerga (Leopardi, Luzi, Gatto, De Angelis) possono dare importantissime indicazioni, compreso Gozzano, che pur avendo i suoi "uccelletti" aveva anche ironia e azzardo nel trattare "le piccole cose" (e anche il suo - forse - alter ego Totò Merumeni). Quindi c'è lirismo  in questi versi, c'è grazia ma forse c'è ancora un po' di strada da fare affinchè essa diventi la  "violenta grazia" che Gabriella Sica augura a un giovane "contento di aver trovato la poesia".


Ci sono tracce disperse come semi
le vedi spuntare nei tramonti invernali
quando l'aria cristallizza tutto ma un particolare
testimonia la determinazione delle cose
a non morire.
A volte mi impegno a inventare, cerco un modo,
perché il tempo duri oltre questo braccio
che io posso comandare, impiegare a mio favore,
oltre questa gola che sa ancora pronunciare
e le orecchie chiaramente distinguono
il verso di un uccello scampato
al pericolo del vento.
Mi fa soffrire il lamento di un cane
ferito sull'asfalto perché un uomo
gli ha reciso un arto mentre guidava
mi fa tremare il pensiero
che in ogni istante qualcosa si consuma e passa
e non sapere dove muore
se è persa per sempre o rivive altrove.
Dove è caduto il seme un uccello
ha cominciato a becchettare
a rigirare la terra con le zampine
a smuovere, a ammucchiare.
C'è qualcosa, lui lo capisce dal colore,
che somiglia al suo dolore
si nasconde accanto a un tronco
grande di pino secolare.
È un insetto piccolo e brutto
che non vola, non può scappare,
ha rubato il seme perché la fame
non poteva sopportare.
L'uccello lo intravede e di forza
il seme gli sottrae.
C'è un giardino bellissimo dove
il pane si divide, è un luogo vero, reale,
dove il grano si coltiva insieme
e si ride, si vive...
Mentre rigiri e fai curve col naso sul mio petto
rintuzzano dolcemente i crani
sul divano noi giochiamo a scorticare i muri
l'intonaco che si sfarina già ci svela
quale colpo è ora il nostro tempo.
Perché solo non morire conta
in quest'aria provvisoria d'autunno
che accarezza gli alberi e poi li spoglia
come fossero una donna bella.
La resistenza al nulla è una lotta
che lascia ferite e tagli
è un labbro squarciato da un pugno
è un figlio espulso da un utero contuso.
Ci sono case che accolgono chiunque
e finestre che restano chiuse per sempre.
Prego i nidi rovinati dal vento
i corpi aperti e rovistati dentro
prego il seme rotto in attesa
di germoglio la resa
dei rami quando tutti i frutti pendono
prego l'occhio che sempre intercetta
e la mano appena scatta
per tutto quello che ora in fretta
si addormenta e spera.
Chiedo il volo leggero d'uccello
un molo lungo per un decollo sicuro
chiedo pane se ancora caldo
e morbide molliche se cado
perché la direzione non controllo
chiedo litri di unguenti per sbloccare
cardini su cui non girano più porte
(la morte, sai, è un giorno senza apertura di braccia).
Chiedo il silenzio della ruggine incastrata
tra ferro e ferro che danneggia, inevitabilmente,
e casse grosse per contenere
delle cose tutto il senso.
Chiedo perché domandare è il primo passo
è il sorso che fa crescere la sete
e tira
il desiderio in avanti fino all'acqua, alla sorgente pura.
Il mattino si lancia dalle case
fuma sole pure dai comignoli
noi nel bavaglio che tiene ferme le lanterne
ci avvolgiamo come uccelli
portiamo acqua verso il secchio dei fianchi
crediamo il cielo un grande scoglio
da sistemarci bene sopra mentre un vento
ci mordicchia appena le caviglie.
Senti che tormento di libeccio sopra i moli
che soffio ingrossa il bucato alle ringhiere...


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