In diciannove anni di attività ha percorso più di 600 mila chilometri, ottenuto duecentosettantre vittorie su strada da professionista e battuto il record dell’ora. Eppure non ama parlare molto di sé. A 63 anni lo “Sceriffo” rimane un tipo schivo.
Parlo di Francesco Moser, il gigante trentino del ciclismo internazionale, che ha accettato di concedermi un’intervista. Quindici minuti al telefono. E’ venuta fuori l’umiltà. Quella che accompagna i veri campioni.
Moser ha iniziato a 18 anni. Professionista dal 1973 al 1988, ha vinto un Giro d’Italia, tre Parigi – Roubaix, due giri di Lombardia e una Milano-Sanremo, oltre ad un campionato del mondo su strada e ad uno su pista. Lo Sceriffo, così lo chiamavano per la sua leadership, risulta oggi il ciclista italiano con il maggior numero di successi.
Come è iniziata la passione per la bicicletta?
Sono nato in una famiglia di ciclisti. Ho seguito le orme dei tre miei fratelli Enzo, Aldo e Diego, che hanno cominciato prima di me. E mi sono appassionato subito. La bicicletta è sudore, fatica, determinazione, ma anche libertà. La mia vita è così.
In che senso?
Vivo, quasi pedalando. Amo impegnarmi, darmi un obiettivo, non riesco a stare fermo. E, soprattutto, non mi piace perdere tempo. Sono uno che fatica tanto per avere risultati concreti subito. Anche ora che non gareggio, lavoro parecchio e mi sforzo di fare bene le cose. Sono impegnato nella mia azienda vitivinicola. Mi alzo alle sette di mattina e lavoro sino a notte fonda. Non me lo chiede nessuno. E’ solo che mi piace tenermi impegnato, ma senza correre. Sto aspettando che arrivi la bella stagione per riprendere ad andare in bici. Ma ora ci vado con tranquillità, senza spirito agonistico. E non le dico quanto mi fa bene!
Torniamo alle sue sfide. Quale è stata la più tosta?
Beh, ce ne sono state tante. Ed ognuna aveva la sua particolarità. Forse la più dura è stata quella con il tempo.
Cioè quella del 1984 a Città del Messico, quando riuscì a battere il record dell’ora (massima distanza percorsa in un’ora)?
Esatto, perché per quella sfida dovevo prepararmi in modo diverso.
Ma cosa ha provato?
Niente di eccezionale. Guardi, mi sono soltanto allenato bene. Tutto qui.
L’avversario che non scorderà mai?
Coppi, Bartali, Saronni. Forse con quest’ultimo ho avuto un rapporto particolare. Ci siamo sfidati per sei anni. Ma ora siamo amici.
Il punto debole di un gigante dello sport come lei?
Beh, tante volte mi sono sbagliato nel giudicare un avversario o un programma.
Nella vita di tutti i giorni?
Ho tanti limiti e non le nascondo che per me è più faticoso gestire la quotidianità, quindi occuparmi dell’azienda, che vincere una sfida in bici.
Momenti particolarmente difficili ce ne sono stati?
Sì, tanti. Nel 1981, quando mi ritirai. Evidentemente non mi ero preparato bene. Ma non ne ho mai fatto una malattia. Quella flessione mi ha dato la possibilità di pensare ai miei errori e prepararmi, organizzarmi meglio per le sfide successive. E poi momenti duri sono stati quelli successivi al mio matrimonio, a trent’anni. Non è tato facile tenere insieme la famiglia e i tour in Europa e nel mondo. Quando una gara terminava sentivo il desiderio forte di tornare a casa da mia moglie e i miei figli.
Consigli a chi vuole seguire la sua passione?
Tutti possono farlo, ma devono considerare che il ciclismo è uno sport durissimo. Ci vogliono tanta fatica e determinazione.
Cosa vorrebbe che tra vent’anni si dicesse di lei?
Oggi sono in vita, mi conoscono in tanti e mi stimano. Tra qualche anno nessuno si ricorderà più di me.
E questo le dispiace?
Ma no. E’ la vita. Toccherà ai ventenni farsi strada e far parlare di sé.
In futuro?
Voglio godermi la vita in campagna.
Cinzia Ficco