Francesco Tadini (con l’aiuto di Melina Scalise, presidente di Spazio Tadini a Milano), organizza l’archivio di Emilio Tadini. Si avanza nella digitalizzazione di una quantità rilevante di materia testuale e iconografica. L’intenzione è di collocare il tutto sul web. Qui l’inizio: http://francescotadini.net/ . Siamo convinti di farlo non solo per il valore “storico” della documentazione, ma anche per mettere a disposizione di molti artisti, soprattutto giovani, il “metodo” di Emilio Tadini, e cioè un modo di lavorare che tesseva intrecci continui tra scrittura (creativa – vedi romanzi e testi poetici – e di critica d’arte) e figurazione.
Di seguito proponiamo un testo del 1958 su ENNIO MORLOTTI.
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Emilio Tadini, Morlotti, 1958
La biografia di Ennio Morlotti è molto semplice, in fondo. Nasce a Lecco, nel 1910. Fino a un’età relativamente matura deve lavorare come impiegato. È solo nel 1936 che consegue a Brera il diploma di maturità artistica. Nel 1937 Morlotti abbandona il suo impiego a Milano. Ha deciso che la sua vita avrà un senso soltanto se potrà diventare un pittore. E per prima cosa va a Parigi. Si potrebbe parlare a lungo su questi dati tanto semplici. C’è un ambiente originario che sarà fondamentale per lui. Ci sono il peso e l’importanza di una vocazione maturata col tempo fino a diventare un’indispensabile ragione di vita. E c’è anche l’importanza di una scelta culturale. Parigi, in quegli anni, è il centro vivo dove si incontrano e lavorano moltissimi tra i pittori più rappresentativi di tutto il mondo. Non tutta la pittura di quei trent’anni era nata a Parigi, ma era qui che – dopo le grandi scoperte degli impressionisti – erano “esplosi” il cubismo prima e il surrealismo poi. Ed è proprio in quel tempo che Picasso espone a Parigi il suo grande quadro su Guernica, la città bombardata. Una pittura come estrema libertà: e come estrema moralità. È fuori di dubbio che proprio di questo va in cerca Morlotti. Se appena si parla di pittura con Morlotti ci si rende subito conto che per lui dipingere è compiere un atto morale. Una forma per lui è ogni volta un tentativo di decidere una verità, di rendere oggettiva un’emozione. Ed è proprio in fondo questo atteggiamento fondamentale che ispira i quadri da lui dipinti fin d’allora, dopo il suo ritorno in Italia. Una specie di impeto dell’emozione, lo sforzo di consumare nella realtà di un quadro un vero atto vitale.
È questo che segna la diversità di Morlotti rispetto ad altri pittori italiani di quel tempo, come quelli di “Corrente”. Dove altri si rassegnavano ad un’atmosfera crepuscolare, Morlotti porta avanti la sua passione violenta. Nascono i primi paesaggi, le prime figure. Molte volte sono ancora oggetti simbolici, questi: ma incisi e sforzati dalla volontà espressiva. Il tempo e il dolore della guerra ripropongono a Morlotti una necessità che non può eludere: una realtà “giudicata” immediatamente dal sussulto addirittura fisiologico dell’emozione. Voglio dire che i suoi quadri del tempo di guerra e degli anni immediatamente successivi non sono la rappresentazione di una protesta, ben ordinata per essere più convincente: sono lo sforzo di esprimere direttamente l’insulto e la sofferenza: un atto reso visibile. Ed è proprio per questo che Morlotti eviterà poi naturalmente tutti gli equivoci di un realismo impegnato a illustrare la cronaca. Morlotti, per l’urgenza morale della sua emozione, non “aveva il tempo” di vedere da di fuori un certo spettacolo: poteva solo vivere dal di dentro un certo atto vitale, in una reazione assolutamente contemporanea proprio perché intima. Basta guardare certe figure da lui dipinte in quegli anni. È come se il pittore avesse assunto in sé la stessa violenza che le feriva e le stravolgeva, come se avesse sconvolto quei personaggi per impossessarsene e parteciparne. Ed essi non si collocano soltanto in uno spazio esteriore: si formano sullo spazio dilatato e acuto dell’emozione che li ha aggrediti e li ha colmati.
Certo, la grande lezione di “Guernica” ha aiutato Morlotti. Ma è anche certo che la sua particolare natura è intervenuta prepotentemente nell’espressione. La linea dei gesti di questi personaggi angosciati e guerrieri è sempre “composta” da una materia aggrumata, piena di realtà pesante, di una densa fisicità. Ed è a Milano, in quegli anni che Morlotti prende parte attivissima ai movimenti dei pittori più giovani e impegnati. Scrive sulle riviste – “Numero”, “Pittura”, “il 45” – tiene conferenze. Me lo ricordo, parlava con una voce sorda che sembrava piena di collera repressa. Sembrava un tribuno della pittura. Parlava di fatti concreti, della necessità di un intervento diretto del pittore nella realtà – e la realtà allora erano le case distrutte di Milano –: parlava di un atto morale, appunto. Violenza diretta dell’emozione (quell’emozione che sempre in Morlotti stravince l’impressione, come diceva molto bene Arcangeli), identificazione della fisicità del reale con il peso della materia pittorica, partecipazione del pittore al suo atto (non racconto) pittorico: sono dati che risultano immediatamente dalla lettura delle prime opere di Morlotti, e che d’altra parte chiariranno, io credo, anche la storia successiva della sua pittura.
Quella tensione emozionale di cui ho parlato costituisce secondo me la ragione prima ce ha portato a sviluppare la sua poetica. L’oggetto, o i personaggi, sconvolti dalla foga espressionista, non gli bastano più. Gli si impone la necessità di penetrare sempre più nell’intimo una materia reale. Ed ecco la serie dei paesaggi, degli aspetti naturali. La partenza è ancora espressionistica: ma la violenza della rottura operata sulla struttura immediatamente visibile porterà il pittore ad avvicinarsi sempre di più al cuore della sua materia. Morlotti lavora a quadri di ispirazione “naturale” ormai da anni. E anche quando dipinge figure si rileva il suo bisogno di organizzare un folto nodo di entità fisiche. Basta pensare alle grandi teste dipinte nel 1950: sembrano monumenti della materia appena configurata in una forma umana: ed è la stessa materia vivente che poi si distenderà e si aggroviglierà nei paesaggi, nei fasci di vegetazione.
Si è parlato molto di questa fondamentale ispirazione naturale di Morlotti. Tutti i critici, come Arcangeli e soprattutto Testori vi hanno insistito. Testori ha anche sostenuto che grazie ad essa Morlotti ha potuto opporsi, superandolo, a un certo formalismo intellettuale che avrebbe inaridito gran parte della pittura contemporanea, e ha situato in un preciso clima lombardo il “naturalismo” di questo pittore. Ma secondo me la storia di Morlotti si inserisce nello sviluppo generale della pittura di questo mezzo secolo: fermo restando, logicamente, il peso particolare della sua natura. (Non credo, sia detto per inciso, che i quadri del cubismo analitico di Braque e Picasso si limitassero a risolvere una serie di problemi superficialmente formali o addirittura rigidamente geometrici. Da quella lenta totale penetrazione di un oggetto del reale risultava una vera multiformità vitale entro una nuova e più folta dimensione). E d’altra parte penso che non si debba insistere eccessivamente sugli aspetti particolari del mondo naturale da cui parte Morlotti (quella luce, quell’aria, quel paesaggio). L’assetto locale, nei quadri di Morlotti, finisce sempre per essere scoperchiato: in una tensione verso una materia assoluta che conta per la consistenza fisica dei suoi elementi primi.
Di fronte agli aspetti della natura, Morlotti agisce con una specie di furia possessiva. Il ritmo, lo spazio, la struttura sono sovvertiti e ricercati. E l’immagine naturale gli apre le sue articolazioni, dà forma e oggetti alla violenza della sua emozione. Una specie di fame di forme corpose, che con la loro vivente complicazione offrano la sicurezza di una verità. C’è lo sforzo di rendere visibile una materia vitale: come se in quel renderla visibile fosse l’unica possibilità di vederla e di parteciparvi. Morlotti parla sovente di una tensione quasi sessuale, di primordiale vitalità, che egli cerca in queste forme naturali. Questo può spiegare quanto dicevo a proposito della sua “furia possessiva”. La fatica di Morlotti è tutta nell’identificare e nel possedere un grumo di vitalità corporea. Lo era nei suoi quadri espressionisti del tempo di guerra, dove sembrava si alzasse la violenza di un atto di generazione, dove la sofferenza sembrava penetrasse a dare anima alla fisicità consistente di quei personaggi. Lo è stato in tutti i suoi paesaggi. Lo è sempre più nei suoi quadri più recenti.
Alle pareti dello studio di Morlotti sono appesi fasci di fiori, di erba, di gambi di granoturco. Quando mi parlava di quello che vorrebbe riuscire a rappresentare, Morlotti li toccava appena, indicava brevemente le linee di certe strutture, l’organizzarsi vitale visibile in quelle forme. Nei suoi ultimi quadri Morlotti abbandona una visione generale di paesaggio, per sprofondarsi nella rappresentazione di un nucleo vitale più intimo. Aria e luce non sono più vaste linee di disposizione di un certo paesaggio: diventano elementi compositivi di una struttura particolare. Così la linea dell’orizzonte esterno sta scomparendo, per lasciare lo spazio ad una specie di orizzonte intimo, articolato lungo i sottili e molteplici profili che compongono un vivente nucleo vegetale. Non è che Morlotti stia guardando a nature morte in senso classico. È che il suo appassionato interesse vuole toccare adesso le giunture più aggrovigliate e più profonde della dinamica naturale. Per arrivare a far coincidere la violenza della sua emozione con questa specie di organismo elementare, con questo primordiale aggregato di vitalità.
Emilio Tadini
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Come di consueto, vi invitiamo a visitare il sito dell’archivio e indichiamo anche a collezionisti e galleristi che abbiano opere di Emilio Tadini di comunicarcelo, per una loro collocazione e numerazione (ed eventualmente autentica)
Grazie e buon agosto a tutti
Francesco Tadini
altri siti utili di riferimento:
Sito di Spazio Tadini: http://www.spaziotadini.it/
Blog di Spazio Tadini: http://spaziotadini.wordpress.com/
Blog Friplot di Francesco Tadini: http://friplot.wordpress.com/