Francesco Tadini mette a disposizione un altro testo d’archivio nel quale l’analisi del padre, Emilio Tadini, a proposito di un grande della pittura italiana contemporanea, Gianni Dova, è particolarmente illuminante circa le scelte fatte dalle principali correnti artistiche nell’immediato dopoguerra.
E. Tadini, I «giudizi» di Dova, 1963
“Io credo che uno dei meriti fondamentali della rivoluzione operata dall’avanguardia di questo mezzo secolo consista nell’aver dilatato – non stravolto – le possibilità della ragione espressiva, nell’averla messa in grado di rappresentare una integrale organicità del reale, nell’averne liberato il potere anche in zone che venivano considerate come il dominio naturale del mistero e della pura sensibilità irrazionale. Ma non credo che tutta l’avanguardia abbia messo in atto questo principio. Una concreta revisione dell0’avanguardia, a mio parere, dovrebbe portare proprio ad una distinzione tra i movimenti e le opere che hanno agito in base a questo principio e quello che invece hanno agito in base a principi opposti. Non si tratta di separare assurdamente il levito dall’illecito. Si tratta piuttosto di chiarire e di interpretare il particolare valore di certe conquiste espressive realizzate da un settore dell’avanguardia. E la sua estrema attualità, oggi. Non è il caso, qui, di svolgere la revisione di cui ho parlato – e che pure ritengo costituisca in questo momento un impegno essenziale per la critica e, naturalmente da un punto di vista ben diverso, per gli stessi artisti. Ma credo ci poter accennare, per quanto in modo estremamente sommario, a un fatto che ritengo fondamentale e che a mio parere risulta evidente ad una analisi obiettiva della situazione. Alcuni movimenti dell’avanguardia tendono a dilatare concretamente le possibilità della ragione espressiva, e si propongono di rappresentare una realtà più complessa – o la stessa complessità del reale. Basta pensare al cubismo, nel suo sforzo di esprimere lo spessore spaziale del tempo, le folte relazioni costitutive di un oggetto;: e al surrealismo più concreto, deciso tra l’altro a esplorare con le sue immagini quella stessa zona dell’inconscio conquistata alla ragione scientifica dalla psicoanalisi; e basta pensare, infine, a quella vera somma dell’avanguardia – di questa avanguardia – che è «Guernica». Altri movimenti dell’avanguardia agiscono invece, a mo parere, in base a principi opposti. È questo il caso di un aspetto del dadaismo, per quanto riguarda l’invenzione del gesto puro, quel gesto di cui l’opera – o meglio la pseudo-opera – non deve essere altro che una traccia insignificante, quel gesto che sembra voler attuare quasi simbolicamente un capovolto processo di creazione, dall’oggetto al nulla. E questo è ancora il caso di certo espressionismo, incapace di costituire una nuova immagine del reale e accanitamente intento a dirigere contro le vecchie immagini figurali il flusso tumultuoso dell’emozione. Qui no si tratta di dilatare le possibilità della ragione espressiva, di organizzare una nuova struttura della rappresentazione. Qui agisce piuttosto, a diversi livelli, una specie di volontà di potenza che solo occasionalmente si attua nel mezzo linguistico, nell’espressione; qui agisce uno slancio che postula l’arretramento alle supposte scaturigini naturali e incorrotte della vitalità, dove l’atto è puro e dove il suo colore può finalmente distruggere le scorie della struttura espressiva mettendola fuori causa. In fondo, certi oggetti trovati dei dadaisti – al di là del loro valore di protesta anarchica – si proponevano di realizzare letteralmente tutto questo. E l’emozione onnipotente di certo espressionismo sembra alludervi con ogni evidenza. A me sembra che in questi ultimi anni le esperienze dell’informale e dell’espressionismo astratto abbiano rifiutato e contraddetto il principio di una concreta libertà della ragione espressiva. L’emozione diventa astratta, e, distrutti i fatti e la struttura della rappresentazione, si propone soltanto di simboleggiare la purezza degli stati d’animo, anzi, di alludervi. E il gesto si serve di una trama di valori pittorici, o meglio pittoricistici, nel tentativo di lasciare una traccia della propria furiosa prezza. Adesso si dice che l’informale è finito, e si parla di una nuova figurazione. Ma invece di proporre con questa nuova formula, implicitamente o esplicitamente, un compromesso tra la materia informale e qualche esigenza di riconoscibilità, o le squallide e assurde imitazioni dell’iconografia dadaista, o qualsiasi altro sperimentalismo formalistico e superficiale, sarebbe il momento, secondo me, di proporsi un altro tema. Sarebbe il momento di esaminare l’opera di uno dei pittori che hanno lavorato e lavorano sforzandosi di realizzare una nuova struttura del linguaggio capace di rappresentare concretamente l’integrità del reale. Gianni Dova è uno di questi pittori.”
nota di Francesco Tadini: credo che questa riflessione sull’”integrità del reale” andrebbe riproposta e confrontata con il presente. Aiuterebbe a uscire dalle secche di un eclettismo sterile e dalla vuota formalizzazione di “provocazioni” che non scandalizzano più nessuno.
Continua Tadini:
“Dova incomincia a dipingere a Milano, nel ’45. I pittori milanesi del ’45 lavorarono, a mio parere, sulla base di una scelta molto precisa. È vero che in sostanza si trattò di una scelta istintiva, e che spesso i risultati furono embrionali. Ma resta un fatto: in primo luogo quei pittori rifiutarono ogni realismo schematico, e in secondo luogo essi scelsero un linguaggio direttamente mediato da un settore molto particolare dell’avanguardia, e cioè da quel settore dell’avanguardia che nel Picasso di «Guernica» aveva il suo testo più limpido. Si sa quello che venne dopo. A quel tentativo di sviluppare certi temi dell’avanguardia, integrandoli in una nuova situazione, a quello sforzo di usare un certo linguaggio come il più atto a rappresentare una serie di significati concreti e complessi, si opposero praticamente due reazioni. La prima, quella del realismo socialista, che agiva in nome dei canoni di un razionalismo dogmatico e per ciò stesso contraddittorio. La seconda, quella dell’informale e dell’espressionismo astratto, che agiva in nome di una pura emozione gestuale.
La partecipazione di Dova al lavoro del gruppo nel ’45 non mi sembra un episodio senza significato e sena conseguenze. Credo anzi che in questa prima occasione dova incominciasse a intuire, anche se d’istinto e confusamente, quelli che sarebbero stati i temi fondamentali della sua pittura successiva, quando – tra l’altro dopo l’incontro con il surrealismo e lo sviluppo di un particolare metodo surrealista – avrebbe realizzato la struttura del suo linguaggio più personale. (a proposito: si potrebbe dire che una delle lacune dei pittori del ’45 consistette forse nella mancata comprensione del valore anche degli elementi surrealistici attivizzati in quel quadro di «Guernica» che pure era il loro testo basilare.) Dova, insomma, intuiste proprio nel ’45 il valore di quel principio che qualche anno fa egli ha dichiarato molto esplicitamente «Io dipingo per formulare un giudizio sul mio tempo, la società e i vari costumi di oggi». Da allora un linguaggio capace di penetrare fino in fondo nella complessità di una concreta situazione reale, per giudicarla rappresentandola.
Negli anni successivi dova inizia un lavoro di ricerche linguistiche che lo porta a sperimentare varie tecniche e i cui risultati si possono raccogliere in due gruppi successivi. Il primo gruppo è costituito da una serie di opere impostate in senso astratto-geometrico. Il secondo da una serie di opere caratterizzate dalla presenza di macchie di colore brillante, molto fluide, ottenute mediante mescolanze di smalti. Io credo che sarebbe inesatto definire questi due gruppi di opere come il frutto di un periodo di crisi. Credo invece che sia ragionevole considerarle come il risultato di un lavoro di sperimentazione linguistica. È, certo, un momento di passaggio. Ma queste esperienze da laboratorio costituiscono probabilmente l’occasione pratica che consente a Dova di passare dalla prima fase del suo lavoro – in cui certe esigenze erano sentite in modo appassionato ma in parte troppo sommario – alla seconda fase, in cui una completa padronanza del mezzo linguistico gli avrebbe consentito di realizzare limpidamente il suo discorso personale. Che si tratti proprio di una attiva sperimentazione mi sembra poi dimostrato dalla semplice considerazione di quel passaggio da strutture rigide a strutture fluide, da un colore composto e calibrato a un colore carico di energia, da una invenzione ideale dell’immagine all’abbandono alla vivacità di una immagine per così dire empirica. E si dovrà pur rilevare come questo sperimentalismo di Dova – impostato ed esaurito in un periodo di tempo relativamente breve e poi messo a frutto in una pittura ben più complessa – abbia precorso di parecchi anni le analoghe esperienze attuali che oggi certa critica tende secondo me a sopravvalutare. (Ed è strano che oggi si facciano sedurre da mediocri esperienze da laboratorio, proposte presuntuosamente come fatti validi in assoluto – non solo nel campo artistico ma anche in quello letterario – proprio gli stessi critici che a suo tempo accusarono di formalismo il tentativo, fatto da alcuni artisti nell’immediato dopoguerra, di assumere dall’avanguardia certi elementi attivi e di iniziarne lo sviluppo nel senso di un nuovo impegno espressivo).
Concluso quel periodo di lavoro sperimentale, Dova può finalmente contare su un linguaggio pittorico diretto e veramente personale, un linguaggio che lo mette in grado di formare un racconto e di assumere le possibili variazioni di un particolare racconto senza essere costretto a rimettere ogni volta in discussione la struttura stessa di quel linguaggio. A questo proposito si potrebbe notare come Dova respinga decisamente e sostanzialmente ogni tipo i intervento gestuale. Egli agisce con piena coscienza di tute le connessioni logiche poste in atto dalla scelta di una autentica operazione rappresentativa. Ed è utile ricordare qui quanto scriveva Luigi Carluccio, presentando nel 1058 una mostra di Dova alla «Galatea» di Torino: «La pittura di Dova… è realizzata attraverso una sequenza premeditata, una serie di filtri che… la escludono dal quella ‘partecipazione’ in cui si strugge , letteralmente, tanto pittura di oggi, ma le danno in cambio la capacità di sviluppare organicamente e logicamente la rappresentazione…»., e quello che scriveva Crispolti, nello stesso anno, presentando una mostra di Dova sul «Notiziario» della «Medusa» di Roma: «…una pittura lucidamente cotrapponentesi a qualsiasi tentativo di trasferirla al di qua dei limiti dell’immaginazione, di incrinarne l’assolutezza ed alterità spaziale costringendola, in assoluta estroversione materia, ad assumere tutte le modalità e tute le necessità d’uno spazio empirico, interamente esistenziale…».
Parlando della pittura di Dova dalla fine del suo periodo sperimentale (verso il 1954) ad oggi è indispensabile considerare il valore determinante della sua partecipazione all’esperienza surrealista. Non si tratta di una manierismo accettato e risolto sul piano formale. Si tratta piuttosto del naturale consenso dato da Dova a quel principio di una liberazione della ragione espressiva in tutte le dimensioni della realtà – considerata come un tutto organico – che il surrealismo più attivo mise concretamente in atto. Dova rifiuta con piena coscienza le fioriture evasive e il blando esotismo del surrealismo deteriore e più divulgato. Lo ha sottolineato lui stesso, del resto, in una dichiarazione riportata da Mario de Micheli nella presentazione alla mostra personale tenuta alla «Nuova Pesa» di Roma nel 1962: «Mi interessa il momento conoscitivo del surrealismo, la sua capacità di cogliere… la relazione tra le cose oltre lo spaio e il tempo naturali… le grandi possibilità di sintesi che ci ha offerto: sintesi psicologiche e oggettive che permettono di rappresentare in una sola immagine la molteplicità e la complessità di una situazione». Accettando l’esperienza surrealista, e precisandone quel particolare valore, Dova dimostra di essere uno dei pittori che hanno risolto in concreto l’impegno fondamentale di sviluppare in modo nuovo, integrandole a nuove esigenze reali, le conquiste «di metodo» di certa avanguardia. E questo suo atteggiamento è certo il solo che consenta di evitare sia il rifiuto dell’avanguardia in nome di un superficiale dogmatismo, sia lo stravolgimento dell’avanguardia in una altrettanto superficiale moltiplicazione di giochi formalistici. Non è certo un caso che Dova abbia dichiarato il suo interesse per i pittori surrealisti della «seconda ondata», citando i nomi di Lam, Brauner e Matta. Io credo che lo abbia fatto proprio perché riconosceva in quei pittori non tanto il valore di un particolare schema formale quando il valore del loro sforzo per sviluppare organicamente i principi essenziali – conoscitivi, come ha detto lui stesso – di un settore dell’avanguardia surrealista. Ma quella surrealista non è la sola componente che debba essere presa in considerazione analizzando questa pittura. Anche Mario de Micheli – lucidissimo interprete critico di Dova – ha rilevato a più riprese l’importanza che ha avuto nel lavoro di questo artista una attenta lettura delle soluzione espressive realizzate da Picasso in «Guernica». Nella presentazione della mostra tenuta alla «Nuova Pesa» de Micheli ha scritto. «Dova sa con esattezza che cose vuol esprimere, possiede l’’idea del risultato a cui vuole arrivare. In questo, più che a Max ernst, a cui si ricollega per certe acquisizioni cromatiche, si riavvicina al Picasso di “Guernica”: è questa, forse, la matrice più autentica di Dova. “Guernica” è, appunto, un quadro domina da un’idea». «Guernica», in effetti, rappresenta come ho già accennato, una vera somma delle esperienze dell’avanguardia. È un quadro, questo, che riassume limpidamente una serie di valori senza limitarsi a concluderli in una definizione formale, ma offrendoli piuttosto alle possibilità di una nuovo sviluppo, certo al di là da ogni semplice ripresa iconografica. Oltre che quella precisa affermazione delle esigenze intenzionali, della centralità di una idea rappresentativa, Dova può riconoscere in «Guernica» una strutturazione essenziale del mezzo linguistico. Non sto parlando di un particolare modo di figurare. Mi riferisco alla possibilità di articolare la struttura intima dell’immagine in modo tale da portarla a rappresentare la concreta complessità di una situazione del reale, e questo non allo scopo di stabilire un catalogo inerte di relazioni, ma, al contrario, per disporre attivamente nell’immagine la più autentica attività del reale, che ogni immagine sommaria rischia soltanto di limitare o addirittura di contraddire.
Il grande tema che torna da un quadro all’altro nell’opera di Dova è il tema di una vita minacciata e indomabile, di una immagine dell’uomo colta in una contemporaneità di distruzione, di resistenza, di ricomposizione. I personaggi di Dova sono tanto più umani quanto più testarda e invincibile è l’ostacolata tensione che c’è in loro verso una integrale umanità. Queste immagini non presuppongono il «prima»ideale di una forma emana, degenerandola: ne costituiscono piuttosto, integralmente, una senso e un significato drammaticamente in moto. «La geologia diventa storia», come ha scritto Guido Ballo presentando una mostra di Dova alla «Galleria BLu» di Milano, nel 1958. storia sentita e prappresentata nella complessità del suo farsi e on negli schemi delle sue apparizioni ataviche. Non agisce qui una deformazione, perché una deformazione presupporrebbe una forma da alterare. C’è piuttosto una formazione direttamente costituita dalla complessità degli elementi significanti e degli elementi oggettivi sollecitati nell’azione. Dova non allude vagamente a qualche stato d’animo, a qualche idea. Non pone in atto una certa forma materiale per far sì che essa ci rimandi ad una significato interiore. Il suo sforzo è sempre teso a chiudere in una sola immagine l’organica molteplicità dei valori che danno sostanza alla realtà e al suo racconto. Ed è proprio questa diretta e violenta intrusione di significati che dà la loro fortuna alle immagini, quali ci appaiono sulla tela. Queste sono immagini non da riconoscere, ma da conoscere. Ma quando le abbiamo interamente consciute di rendiamo conte che esse coinvolgono anche noi nella loro storia, o, meglio, che sono coinvolte nella nostra. La materia della pittura di Dova è spesso molto ricca, addirittura suntuosa. Ma questo non è il frutto di una esteriore tendenza alla preziosità. Quella sontuosità sembra quasi insistere un certo significato rituale di queste rappresentazioni. Stabilisce un tono di fondo, inequivocabile. Ma non un tono in senso pittorico. Si potrebbe dire che essa contribuisce a mantenere una cadenza epica del discorso, che corrisponde a una «maniera grande» stabilito dalla materia nei quadri di Dova non serve a sostenere una agitazione retorica di forme simboliche, di immagini chiuse in una sospetta nobiltà formale, in uno spazio fantastico. Questi sono i decorati personaggi di un incubo. Agiscono nella realtà e la realtà agisce in poro, in una reciproca intensificazione. Sono sottoposti alla pressione di forze e di accadimenti oggettivi, ed è questo sensazioni che agiscono anche certe realistiche indicazioni di spazio, di esterni e di interni. Sarebbe impossibile interpretare l’opera di Dova come l’esaltazione di una vitalità o di una angoscia astratte. Il racconto che Dova svolge, un quadro dopo l’altro, si riferisce con chiarezza ad una serie di concrete situazioni reali, di fatti. Dova si rende conto che una nuova forza espressiva può attuarsi non evitando i fatti ma soltanto illuminandone altre relazioni costitutive. Non voglio dire che nella pittura di Dova ogni intensità lirica sia sostituita da un freddo calcolo oggettivo. Creo che in questa pittura agisca un lirismo che si potrebbe definire estroverso, spinto dalla qua stessa violenza a oggettivarli ogni volta nella oggettività di un racconto. Ed è questo particolare lirismo che porta Dova ad attaccare sempre ogni residuo di delirio o di eccitazione trasferendone tutta l’energia nella struttura della rappresentazione.
Alcuni personaggi sembrano proporci una drammatica identificazione di violenza esercitata e violenza subita. Ma questa identificazione non tende a condolere la realtà eliminando misticamente a possibilità di giudizio, anzi responsabilizza in pratica chi guarda, lo coinvolge integralmente, illimpidisce il suo giudizio, gli fa respingere ogni moralismo e valutare una vera moralità. L’atteggiamento di altri personaggi di Dova nei confronti della brutalità di un condizione sembra risolversi nello sforzo di ingoiarla, di dirigerla, di fagocitarla, proponendoci il valore di una umana capacità di resistenza superiore in concreto e per sempre ad ogni offesa. E le ferite riportate, o l’umiliazione del gesto animalesco e tortuoso che quei personaggi hanno dovuto compiere, si liberano l’una e le altre nella conclusione di una dignità elementare e irriducibile. Altre volte la complicazione della struttura di certi personaggi sembra rappresentare una vera e propria moltiplicazione di organi sensoriali aperti a tutte le sollecitazioni, in dimensioni dove a violenza del desidero si volge verso il mondo e verso se stessa. Altre volte il tema del sesso viene svolto in immagini sontuose e crudeli insieme, fino a risolvere in una specie di alta e furiosa parodia le tentazioni della violenza e della solitudine. Altre volte ancora il personaggio, per possedersi, si dilania: e si frantuma proprio per infrangere in se stesso la falsità di ogni semplificazione, per dilatarsi nella concretezza delle relazioni che lo fanno veramente e attivamente vivo.
Ho soltanto accennato sommariamente alla folta tematica in cui si articola il racconto figurali Dova. Ma questi accenni sommari dovrebbero servire a testimoniare sia del senso generale di quella narrazione, sia della sua capacità di svilupparsi in una serie di accadimenti concreti. Questa considerazione può servire a concludere qui il discorso. La struttura generale dell’opera di Dova corrisponde, in fondo, alla struttura di ogni racconto, e di ogni personaggio che in quel racconto agisce. E nello sforzo di integrare la complessità del reale nella lucida unità d un significato umano è certo il valore più concreto della pittura di Gianni Dova.” E. Tadini
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Francesco Tadini vi ringrazia per l’interesse (e ringrazia i molti lettori che, oltre a seguire l’evolversi dell’archivio Tadini, stanno contribuendo con domande e riflessioni) e vi da “appuntamento” su Friplot, sito dove, attualmente, vengono pubblicati minuscoli “enigmi d’arte d’estate”. A voi l’ultimo, cercate la soluzione: http://friplot.wordpress.com/2011/08/28/francesco-tadini-e-gli-enigmi-dagosto-in-cima-alle-scale-ti-sei-arrestato-dove-uno-sguardo-va-ben-gettato/